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lunedì 9 marzo 2015

‘Ndrangheta, Emilia e tempo di saldi

Che le mafie fossero arrivate in Emilia-Romagna, si sapeva da tempo anche se la sottovalutazione, soprattutto politica, è stata clamorosa. Che la criminalità organizzata fosse così forte e radicata si è però preferito non dirlo, forse nemmeno pensarlo. Anche ora che la prima grande inchiesta, Aemilia, ha squarciato silenzi e tentativi di ridurre la portata dell’insediamento mafioso, non si sprecano certo le reazioni di rilievo. Tacciono, o emettono aria fritta, le istituzioni, ma anche gran parte della cosiddetta “società civile”. Comunque finisca l’inchiesta, quel che s’è saputo su alcuni reati – dagli appalti ogni tipo (anche quelli per togliere le macerie del terremoto e per la ricostruzione) alla compravendita di voti, all’occultamento di rifiuti pericolosi – cambia per sempre l’idea di una Emilia relativamente felice nella legalità, nell’antico e sano riformismo e nella ricchezza pulita che deriva solo dal lavoro e dall’ingegno. Un libro, una lettera censurata e le sensazioni di un giornalista emigrato nel secolo scorso in una terra irriconoscibile
di Daniele Barbieri - 1. Ogni tanto (di rado) anche «Repubblica» fa la cosa giusta. Così in edicola arriva – sono 380 pagine per 6,90 euri – «‘Ndrangheta all’emiliana» pubblicato d’intesa con le tre «Gazzetta» di Mantova, Modena e Reggio e con «La Nuova Ferrara». Non so dire se il libretto sia reperibile in tutta Italia; penso di sì, io a Imola l’ho trovato. E merita la spesa. Il sottotitolo spiega: «Infiltrazioni e complicità: i documenti d’accusa della magistratura». In effetti «l’ordinanza» occupa quasi tutto il libro, completato da due articoli iniziali di cronaca, da tre brevi – e un po’ ripetitivi – commenti “a caldo” più un’intervista a Nicola Gratteri e un articolo (chissà perché intitolato «Gli articoli») di Rossella Canadè sui legami dell’inchiesta emiliana con Mantova.
Che le mafie fossero arrivate in Emilia-Romagna si sapeva da tempo anche se la sottovalutazione (soprattutto politica) è stata clamorosa. Ma che la grande criminalità organizzata fosse così forte, così radicata… si è preferito non dirlo, nemmeno pensarlo. Con qualche eccezione (Libera principalmente) il gioco a minimizzare è stato totale. Certo se Giovanni Tizian, un giornalista viene minacciato di morte e finisce sotto scorta se ne parla, ma finisce lì. In pochi cercano di vedere se i molti tasselli che salgono in superficie compongono un quadro, lasciano intravedere la parte nascosta del gigantesco iceberg. Anche ora che l’operazione «Aemilia» (con 117 arresti, quasi tutti in Emilia) ha squarciato silenzi e minimalizzazioni non si registrano reazioni di rilievo. Finora tacciono – o emettono aria fritta – le istituzioni e purtroppo anche gran parte della “società civile”. Eppure, comunque finisca l’inchiesta, quel che si è saputo cambia definitivamente l’idea di un’Emilia relativamente felice nella legalità, nel suo antico e sano riformismo, nei valori diffusi, nella ricchezza “pulita” che deriva dal lavori e dall’ingegno anziché dai crimini più odiosi.
In galera finiscono i capi e gli emissari della cosca calabrese – di Cutro per l’esattezza – Grande Aracri ma anche molti «insospettabili», come si dice (il termine è sbagliato ma lasciamo perdere): manager, politici, giornalisti… Qualche nome? Marco Gibertini, giornalista di «Tele Reggio» appoggiò con i suoi servizi la ndrangheta reggiana. Giuseppe Pagliani, esponente importante, di Forza Italia-Pdl, organizzò lo scambio di voti con la cosca. La storica azienda modenese Bianchini Costruzioni abbandonò l’amianto anche in aree verdi e scuole. In cella anche l’imprenditore Giuseppe Iaquinta ma fa quasi più notizia che sia il padre di un famoso calciatore). E si potrebbero aggiungere moltissimi (tristi) eccetera.
I crimini? Intimidazioni, estorsioni, pizzi e usura ovviamente. Ma soprattutto i reati più gravi: appalti di ogni tipo, anche per togliere le macerie del terremoto e per la ricostruzione; la compravendita di voti (almeno 7 candidati a sindaco coinvolti); occultamento di rifiuti pericolosi. Spesso – si legge nell’Ordinanza – non c’è bisogno di armi per ottenere qualcosa, basta “ungere”. La rete è collaudata, estesa, solida.
Il cuore dell’inchiesta è Reggio (in Emilia non in Calabria) con Modena e Parma coinvoltissime ma ce n’è anche per Piacenza, per Mantova (il sindaco Nicola Sodano è indagato) con propaggini a Verona. E a Roma dove un giudice della Cassazione, non ancora identificato, era collegato con esponenti massoni ma anche con un monsignore della Diocesi… tanto per chiudere il quadro.
Nell’«ordinanza» c’è anche un paragrafo sulle talpe, cioè poliziotti e carabinieri che passavano informazioni alla ‘ndrangheta emiliana; fra loro spicca Domenico Mesiano, autista del questore di Reggio Emilia e addetto stampa della questura
ndranghetaBLOGUn bel libretto.
A essere pignolo direi che i giornalisti potevano aggiungere un indice e magari qualche nota per facilitare la lettura spiegando a esempio che Dda è Direzione Distrettuale Antimafia e che Roni non è parola giapponese ma sta per «Reparto operativo nucleo informativo» (dei Carabinieri). I magistrati usano normalmente queste sigle ma ai più restano ignote. A essere ancora pignolo direi che l’immagine – quella che ho preso anche io – in copertina del libro è efficace ma molto ambigua perchè da mo’ le mafie si son tolte la coppola… Ma sono appunto pignolerie. Il libro è meritevole, indispensabile addirittura. E’ da sperare che adesso i giornalisti nazionali e locali non mollino la presa: soprattutto contro gli evidentissimi tentativi di “rimuovere” – e se possibile di “insabbiare” – il più possibile questa inchiesta.
2. Se non sbaglio sui giornali di Reggio Emilia è apparsa una sola lettera a proposito dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta. Questa (che ho dovuto ricopiare perché in rete non l’ho trovata) sul «Carlino Reggio» firmata da Gabriella Lusetti. C’era in fondo il commento del giornalista che diceva di avere cassato una frase per evitare di andare in galera. Oooooh. Interessante il taglio. Interessantissimo che venga conclamato. Mi ripeto, anzi raddoppio: oooooh e oooooh.
Eccola.
«Avremmo voluto ascoltare una dichiarazione dell’Anpi, del Sindacato, delle associazioni di volontariato, della Chiesa, delle Donne in nero, del centro sociale Aquarius, della Federazione anarchica e, perché no?, di Casa Pound. Avremmo voluto ascoltare una condanna forte e chiara della penetrazione mafiosa a Reggio Emilia. E invece abbiamo ascoltato il silenzio colpevole di questa città omertosa. Tutti zitti nella città del rosso colore che tutt’Italia voleva essere uguale, la città di Prampolini e del movimento cooperativo. E non c’è nemmeno stata una manifestazione, una fiaccolata, una processione. Niente di niente e meno ancora. Non parlano i vecchi e non parlano i giovani, presi come sono dall’happy hour serale a base alcolica che in questa terra, antropologicamente parlando, fa tendenza e fa cultura. Mai come oggi ricordare i fratelli Cervi e i morti ammazzati del 7 luglio 1960 non è altro che inutile retorica. A Cutro Reggio ha dedicato una strada. Però ha dimenticato l’altra Cutro, quella della ‘ndrangheta e, complice per avidità di denaro e di potere, l’ha lasciata fare. E allora noi vorremmo sapere i nomi dei politici, degli amministratori, dei professionisti, dei burocrati che hanno permesso questo scempio traendone vantaggio personale. Noi vorremmo che chi sa parlasse. Noi vorremmo giustizia. E intanto Reggio s’imbruttisce e s’abbrutisce, lasciata a se stessa, trascurata e mortificata, senza più quel senso civico che la faccia urlare di sdegno contro chi ha messo le mani sulla città. Ma a chi importa, questo è tempo di saldi».
Tempo di saldi, scrive Gabriella Lusetti. E di soldi ovviamente.
3. Non ho approfondito ma lo farò. Appena possibile leggerò anche «EMILIA ROMAGNA COSE NOSTRE 2012-2014. Cronaca di un biennio di mafie in Emilia Romagna»: è un dossier realizzato dalla collaborazione fra Gaetano Alessi, il Gruppo antimafia Pio La Torre e il Gruppo dello Zuccherificio. Ne ho avuto notizia, e mi pare significativo, perché a Imola lo ha presentato il centro sociale «Brigata 36». Si presenta come una ricerca e non un’opera letteraria, come una “cassetta degli attrezzi”; altre info sono qui:
Fuori-la-mafia-da-reggio
Il Movimento 5 Stelle chiede le dimissioni del consigliere reggiano Pagliani di Forza Italia
Delle mafie in Emilia-Romagna qualcosa di interessante hanno raccontato alcuni romanzi, in particolare – qualche giorno fa l’ho ricordato in bottega: La ‘ndrangheta è a Reggio… ma in Emilia – la trilogia del bravo (ma sconosciuto) Antonio Fantozzi: letteratura certo ma significativa, soprattutto se il giornalismo è “distratto”. Per esempio a Reggio (Emilia) ci sono tre quotidiani: l’edizione locale del «Carlino», uno della Curia e quello repubblicano di De Benedetti. Al di là dei singoli casi – ci sono giornaliste/i stimabili ovunque – le direzioni (cioè le proprietà) dei tre giornali non sono apparse interessate a indagare sulle mafie locali, spesso si sono “appassionate” più a quella in arrivo dalla Cina … vera o “esagerata” che essa sia.
Lasciando per un attimo la criminalità e passando alla “politica” – ma si sa che i confini diventano spesso incerti – un amico “maligno” mi ricorda che in un articolo su «Repubblica», a firma Statera, si parla di Antonella Spaggiari come cavallo di Troia per conto di Berlusconi. Ma questa è una spiegazione politica. Se pure non c’è un collegamento automatico – intendo del signor P2-1816, della sua Forza Italia e annessi con le mafie – è però evidentissimo che le scelte politiche del berlusconismo e di chi si allea con lui MAI vanno nella direzione di combattere davvero le mafie e di sostenere quella parte (minima, a quel che capisco io) della magistratura e delle “forze dell’ordine” che davvero le combattono. Per questo temo che si cercherà di «insabbiare» questa inchiesta. Politicamente lo si sta già facendo. Un amico saggio commenta così: «Fa una certa impressione perché questa terra ha sempre condannato gli insabbiamenti (quando erano democristiani e affini) e ora li sollecita. Si sceglie la ragion di Stato, la Ragion di Partito, secondo l’assunto che i panni sporchi si lavano in famiglia, come fa la Chiesa, che poi è un modo per dire che non si lavano affatto, e semmai si sporcano di più. Per questo temo che le varie mafie continueranno a fare affari, penetreranno sempre di più nel tessuto cittadino, informeranno di sé sempre più le istituzioni civili, e via di seguito».
Ha ragione il mio amico, di solito saggio? Ha ragione Gabriella Lusetti che «è tempo di saldi» e non importa a nessuno? Cosa possiamo fare?
E siccome queste domande generiche dovrebbero sempre chiamare in causa anche chi le fa… io per quel che mi riguarda – nel mio piccolo, piccolissimo – posso aggiungere solo due cose. La prima è ovvia: questa bottega è aperta ad allargare il discorso. La seconda mi chiama in causa come direttore responsabile (per caso) della rivista reggiana «Pollicino Gnus»: chiederò alla redazione – mi pare che in tanti anni sia la seconda volta che intervengo nelle loro scelte – anzi sto già chiedendo di fare un numero sulla criminalità reggiana, su chi la sostiene e su chi la combatte.
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POST SCRIPTUM
Nel libro citato all’inizio («Ndrangheta all’emiliana») c’è un’intervista a Gratteri. Mi colpisce questo virgolettato iniziale (poi lasciato cadere): «Il confino dei mafiosi al Nord? E’ stato il più grosso errore del legislatore italiano nella sua storia». Nella mia ignoranza “giuridica” l’ho sempre pensato anch’io. Un errore talmente grande da indurre in cattivi pensieri. E l’hanno sempre pensato “terroni” e “terrone” che conosco: emigrate/i al Nord, per i più vari motivi, si sono sentiti addosso anche il peso dei confinati per mafia. Sarò stupido ma davvero non capisco: un errore così grande e lungo tanti anni può essere solo un errore? Qualcuna/o mi spiega?

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