Esiste una
legge d' "attrazione" che governa l'universo, che chiama a raccolta
gli "spiriti" affini, che promuove l'intersezione di avvenimenti
sinergici, che calamita le energie cosmiche finalizzandole all'eterno scorrere
della vita? Quando si vivono giornate fatte di incontri e di esperienze che
lasciano il segno si è inclini a credere di sì. E' bastato un pretesto a
scatenare una concatenazione di confluenze astrali: il semplice dono di una
bottiglia di vino! Ma procediamo con ordine.
Al wine-bar Cairoli sovente capita di soffermarsi sulla capacità di talune bottiglie di emozionare. A volte il blasone, a volte l'intrinseca qualità del prodotto, costituiscono un sicuro approdo per la voglia di stupire e il desiderio di ingenerare piacere.
Stasera l'attenzione di tutti i presenti è calamitata dall'eloquio esplicativo e descrittivo di Lino Ficelo, titolare del locale. Davanti a Lui autentici miti enologici quali il Brunello di Montalcino Biondi Santi, il Sassicaia, il Tignanello, il Barbaresco Gaja, ed una coppia di avventori concentrati nell'incombenza e nell'urgenza di una scelta. Alla richiesta di un parere mi associo con una battuta: il Barbaresco Gaja è un fuoriclasse. Rientra, a mio parere, nel ristretto novero di quelle bottiglie assolutamente imperdibili e indimenticabili. Fatalmente si finisce per parlare del suo facitore, le "roy", Angelo Gaja. Ed è a quel punto che cuori e desideri si fondono, che si evocano scenari affascinanti sui delicati crinali della rievocazione estatica, che si invoca subliminalmente il contributo di tutti gli astanti, presenti e sopravvenienti. L'improvvisato "simposio" necessitava di un calice propiziatorio. Decido di stappare un Riesling Trocken 2008 Nussbrunner dell'azienda SCHLOSS SCHONBORN.
Si favoleggia sul primato della tecnica enologica dei francesi ma quando ci si imbatte in un prodotto dei "signori del freddo", come amo appellare i viticoltori tedeschi, si resta attoniti. A certe latitudini ritrovare lampi di solarità, intensità di tocco, spettri aromatici esotici ha del miracoloso. Siamo già un piccolo gruppo attorno alla bottiglia appannata ad avere gli occhi ridenti e lucidi di godimento.
Poi l'universo si allinea alle attese e alla chiamata: assistiamo all'ingresso e all'incedere trionfale del Barbaresco 2006 di Gaja, recato da un Bevitore “randagio”.
Per certi versi il Barbaresco è il prodotto di punta dell'azienda Gaja. I celebrati Sorì magnificano le uve di particolari "cru". Il Barbaresco è invece espressione dell'autentico spirito langarolo, sinfonia di celebrate parcelle che conferiscono materie prime eccellenti per la realizzazione di un "blend" di Nebbiolo unico.
Il vero Barolo, il vero Barbaresco nascono come "blend".Il compianto Bartolo Mascarello ironizzava sull'esistenza di etichette recitanti il nome di una singola vigna. La tradizione ha sempre ignorato questo vezzo. Poi, da consumati "scimmiottatori" dei cugini d'oltralpe, abbiamo riscoperto il concetto di "cru", con buona pace delle antiche e autentiche sapienze italiche.
Scegliamo un tavolo strategico ed un'altra bottiglia che fungesse da ulteriore apripista al Barbaresco. Lo stato di grazia collettivo e ambientale è tale che stappare un Illivio 2001 di Livio Felluga ci è parso sufficiente.
Forse Pinot bianco in purezza, è l'ennesima dimostrazione che l'umidità è il parametro decisivo nella corretta conservazione di una bottiglia, più della temperatura, più dell'esposizione alla luce e agli odori circostanti. L'etichetta innervata di spore muffite lo dimostra.
Finalmente si passa a Gaja. Il "bouquet" è da brividi, vero riepilogo didattico delle fragranze tipiche di un nebbiolo di Langa. Su tutto note di confettura di more e liquirizia.
All'assaggio una nota leggermente sfocata: si avverte il morso di un tannino ancora ruvido. E qui occorre una divagazione, “alla leggera”, di natura squisitamente tecnica.
L'armonia di un vino si gioca principalmente nella perfetta integrazione e riduzione in equilibrio delle colonne portanti della sua struttura: tannini e acidità.
Entrambe si abbeverano alla stessa fonte: il liquido secreto dalle ghiandole salivari. I tannini lo aggrediscono e lo prosciugano col conseguente effetto allappante. In assenza di saliva l'acidità non è ammorbidita, i suoi spigoli smussati, le sue asperità avvolte. L'acidità promuove da sé la salivazione ma il tannino "duro", dai polìmeri corti e uncinati, la azzera. Fortunatamente beneficiamo del soccorso degli umori sanguigni di una spettacolare bistecca "scozzese" di 1, 3 Kg. Il flusso sensoriale, turbato dal portato tannico del Barbaresco di Gaja, riprende a scivolare fra lingua e palato.
Il tannino "duro", non certo da rintracciare nel vino di Gaja, chimicamente diverso da quello che risiede sulla buccia e nella polpa dell'acino e senza considerare l'apporto del "dolce" tannino "gallico" del legno, si annida nel rachide(che natura ha creato per reggere i pomi, l'unica parte utile di frutto).Per questo è in genere un errore non diraspare! I francesi , in annate sfavorevoli, a volte non diraspano. Perchè hanno fatto di necessità virtù. Il problema è quello atavico di avere “consistenza” a fronte di uve che il famoso enologo Emile Peynaud definiva, nel migliore dei casi, "d'argento". Quando la natura è avversa e la materia prima è inconsistente per la cronica difficoltà del frutto a maturare dove imperversano freddi e nebbie, la struttura va costruita con i materiali per così dire di scarto. I francesi, specificatamente in Borgogna, spesso lo fanno. Un esigenza "tecnica" per reperire "struttura". Non c'è poesia, non c'è sapienza enologica in questo. I prolungati affinamenti in vetro hanno il malcelato scopo di centrare una quadratura gustativa nel magico crogiuolo della maderizzazione, nella misterica "roulette russa" dell'ossidazione. Il Barbaresco Gaja non ha di questi problemi. E' quasi perfetto da subito!
In Italia non si ha bisogno né di zuccheraggio(per i francesi "chaptalisation", sembra quasi una pratica innocua e non un trucco come la concentrazione dei mosti , le micro-ossigenazioni e diavolerie del genere), né di sfibranti invecchiamenti.
In Italia non si hanno formidabili durezze da rendere sorbibili.
I francesi straparlano di un approccio naturale nelle vinificazioni e dimenticano un dato certo: la natura fa fruttificare la vigna tutti gli anni e imprime nel suo "dna" un chiaro messaggio volto alla fruizione del suo frutto e non alla sua conservazione.
A volte la conservazione non va mitizzata perché è un artificio per salvare capre e cavoli. Si conserva perché forse non si è in grado di fare vini buoni da subito o in tempi ragionevoli.
Peccato che tutto questo (spesso in malafede) si traduca in facili slogan ( il vino più è vecchio, più è buono; occorre dimenticare le bottiglie in cantina per cogliere futuri e ipotetici apogèi espressivi; etc etc)
Se ad un’apertura precoce il vino risulterà buono avranno parzialmente torto i profeti della bevuta assolutamente da differire nei decenni a seguire. Anche se il vino dovesse risultare eccellente dopo vent'anni! Se lo è anche adesso ha ragioni diverse per esserlo. Oggi il frutto, domani tannini più setosi. E' solo una questione di gusti prediligere una combinazione gustativa invece che un'altra, non un valore assoluto.
In Italia, nei quartieri alti della critica enologica, non si ama molto il frutto. Viene considerato banale, volgare, un non valore.
Quante occasioni di piacevolezza dispersa per puro pregiudizio! E' come se, potendo amare una splendida ventenne, si decidesse di preferire aprioristicamente e acriticamente sempre una fascinosa quarantenne, dando per scontato lo splendore della gioventù e raro e prezioso lo "charme" conseguito col tempo. Ma chi ci darà la lucentezza, i profumi, la freschezza degli anni dorati che vedono da presso i trascorsi adolescenziali e si dipanano ai prodromi della maturità? Poi, nell'accostarsi ad un nettare vetusto, si dovrebbe sempre esercitare il salutare esercizio del dubbio. L'apparato sensoriale gusto-olfattivo ha un grosso limite: la decrescente obiettività percettiva. Uno spettro aromatico difettoso è sempre meno tale se sottoposto a reiterate olfazioni. Di sorso in sorso le nari e le papille gustative registrano sempre meno frizioni, sempre più levigate ruvidità. Dell'esperienza della progressiva minore consapevolezza dei difetti ne è piena la quotidianeità. Solo gravi disarmonie tengono in scacco il naturale processo fisiologico dell'assuefazione .Dovremo diffidare di noi stessi quel tanto che basta per evitare clamorose disincronie fra quanto percepito all'inizio della degustazione e alla fine della stessa. Per non parlare delle prolungate ossigenazioni. Vantaggiose ma senza esagerare. L'aria è e resterà sempre un nemico per il vino una volta giunto nella sua vitrea destinazione finale.
Si favoleggia su vini che richiederebbero "stappaggi" addirittura anticipati di giorni. Leggende come quelle relative alla corretta conduzione di bottiglie vegliarde fuori dalla cantina al ritmo di un gradino al giorno, tanto care alla complessa mitologia enologica francese. Non ultima poi la considerazione che i vini vetusti tendono ad assomigliarsi un po’ tutti: non è esaltante la prospettiva che tra un barolo ed un brunello conservati trent’anni non c’è poi tanta differenza!
Rosario Tiso
Al wine-bar Cairoli sovente capita di soffermarsi sulla capacità di talune bottiglie di emozionare. A volte il blasone, a volte l'intrinseca qualità del prodotto, costituiscono un sicuro approdo per la voglia di stupire e il desiderio di ingenerare piacere.
Stasera l'attenzione di tutti i presenti è calamitata dall'eloquio esplicativo e descrittivo di Lino Ficelo, titolare del locale. Davanti a Lui autentici miti enologici quali il Brunello di Montalcino Biondi Santi, il Sassicaia, il Tignanello, il Barbaresco Gaja, ed una coppia di avventori concentrati nell'incombenza e nell'urgenza di una scelta. Alla richiesta di un parere mi associo con una battuta: il Barbaresco Gaja è un fuoriclasse. Rientra, a mio parere, nel ristretto novero di quelle bottiglie assolutamente imperdibili e indimenticabili. Fatalmente si finisce per parlare del suo facitore, le "roy", Angelo Gaja. Ed è a quel punto che cuori e desideri si fondono, che si evocano scenari affascinanti sui delicati crinali della rievocazione estatica, che si invoca subliminalmente il contributo di tutti gli astanti, presenti e sopravvenienti. L'improvvisato "simposio" necessitava di un calice propiziatorio. Decido di stappare un Riesling Trocken 2008 Nussbrunner dell'azienda SCHLOSS SCHONBORN.
Si favoleggia sul primato della tecnica enologica dei francesi ma quando ci si imbatte in un prodotto dei "signori del freddo", come amo appellare i viticoltori tedeschi, si resta attoniti. A certe latitudini ritrovare lampi di solarità, intensità di tocco, spettri aromatici esotici ha del miracoloso. Siamo già un piccolo gruppo attorno alla bottiglia appannata ad avere gli occhi ridenti e lucidi di godimento.
Poi l'universo si allinea alle attese e alla chiamata: assistiamo all'ingresso e all'incedere trionfale del Barbaresco 2006 di Gaja, recato da un Bevitore “randagio”.
Per certi versi il Barbaresco è il prodotto di punta dell'azienda Gaja. I celebrati Sorì magnificano le uve di particolari "cru". Il Barbaresco è invece espressione dell'autentico spirito langarolo, sinfonia di celebrate parcelle che conferiscono materie prime eccellenti per la realizzazione di un "blend" di Nebbiolo unico.
Il vero Barolo, il vero Barbaresco nascono come "blend".Il compianto Bartolo Mascarello ironizzava sull'esistenza di etichette recitanti il nome di una singola vigna. La tradizione ha sempre ignorato questo vezzo. Poi, da consumati "scimmiottatori" dei cugini d'oltralpe, abbiamo riscoperto il concetto di "cru", con buona pace delle antiche e autentiche sapienze italiche.
Scegliamo un tavolo strategico ed un'altra bottiglia che fungesse da ulteriore apripista al Barbaresco. Lo stato di grazia collettivo e ambientale è tale che stappare un Illivio 2001 di Livio Felluga ci è parso sufficiente.
Forse Pinot bianco in purezza, è l'ennesima dimostrazione che l'umidità è il parametro decisivo nella corretta conservazione di una bottiglia, più della temperatura, più dell'esposizione alla luce e agli odori circostanti. L'etichetta innervata di spore muffite lo dimostra.
Finalmente si passa a Gaja. Il "bouquet" è da brividi, vero riepilogo didattico delle fragranze tipiche di un nebbiolo di Langa. Su tutto note di confettura di more e liquirizia.
All'assaggio una nota leggermente sfocata: si avverte il morso di un tannino ancora ruvido. E qui occorre una divagazione, “alla leggera”, di natura squisitamente tecnica.
L'armonia di un vino si gioca principalmente nella perfetta integrazione e riduzione in equilibrio delle colonne portanti della sua struttura: tannini e acidità.
Entrambe si abbeverano alla stessa fonte: il liquido secreto dalle ghiandole salivari. I tannini lo aggrediscono e lo prosciugano col conseguente effetto allappante. In assenza di saliva l'acidità non è ammorbidita, i suoi spigoli smussati, le sue asperità avvolte. L'acidità promuove da sé la salivazione ma il tannino "duro", dai polìmeri corti e uncinati, la azzera. Fortunatamente beneficiamo del soccorso degli umori sanguigni di una spettacolare bistecca "scozzese" di 1, 3 Kg. Il flusso sensoriale, turbato dal portato tannico del Barbaresco di Gaja, riprende a scivolare fra lingua e palato.
Il tannino "duro", non certo da rintracciare nel vino di Gaja, chimicamente diverso da quello che risiede sulla buccia e nella polpa dell'acino e senza considerare l'apporto del "dolce" tannino "gallico" del legno, si annida nel rachide(che natura ha creato per reggere i pomi, l'unica parte utile di frutto).Per questo è in genere un errore non diraspare! I francesi , in annate sfavorevoli, a volte non diraspano. Perchè hanno fatto di necessità virtù. Il problema è quello atavico di avere “consistenza” a fronte di uve che il famoso enologo Emile Peynaud definiva, nel migliore dei casi, "d'argento". Quando la natura è avversa e la materia prima è inconsistente per la cronica difficoltà del frutto a maturare dove imperversano freddi e nebbie, la struttura va costruita con i materiali per così dire di scarto. I francesi, specificatamente in Borgogna, spesso lo fanno. Un esigenza "tecnica" per reperire "struttura". Non c'è poesia, non c'è sapienza enologica in questo. I prolungati affinamenti in vetro hanno il malcelato scopo di centrare una quadratura gustativa nel magico crogiuolo della maderizzazione, nella misterica "roulette russa" dell'ossidazione. Il Barbaresco Gaja non ha di questi problemi. E' quasi perfetto da subito!
In Italia non si ha bisogno né di zuccheraggio(per i francesi "chaptalisation", sembra quasi una pratica innocua e non un trucco come la concentrazione dei mosti , le micro-ossigenazioni e diavolerie del genere), né di sfibranti invecchiamenti.
In Italia non si hanno formidabili durezze da rendere sorbibili.
I francesi straparlano di un approccio naturale nelle vinificazioni e dimenticano un dato certo: la natura fa fruttificare la vigna tutti gli anni e imprime nel suo "dna" un chiaro messaggio volto alla fruizione del suo frutto e non alla sua conservazione.
A volte la conservazione non va mitizzata perché è un artificio per salvare capre e cavoli. Si conserva perché forse non si è in grado di fare vini buoni da subito o in tempi ragionevoli.
Peccato che tutto questo (spesso in malafede) si traduca in facili slogan ( il vino più è vecchio, più è buono; occorre dimenticare le bottiglie in cantina per cogliere futuri e ipotetici apogèi espressivi; etc etc)
Se ad un’apertura precoce il vino risulterà buono avranno parzialmente torto i profeti della bevuta assolutamente da differire nei decenni a seguire. Anche se il vino dovesse risultare eccellente dopo vent'anni! Se lo è anche adesso ha ragioni diverse per esserlo. Oggi il frutto, domani tannini più setosi. E' solo una questione di gusti prediligere una combinazione gustativa invece che un'altra, non un valore assoluto.
In Italia, nei quartieri alti della critica enologica, non si ama molto il frutto. Viene considerato banale, volgare, un non valore.
Quante occasioni di piacevolezza dispersa per puro pregiudizio! E' come se, potendo amare una splendida ventenne, si decidesse di preferire aprioristicamente e acriticamente sempre una fascinosa quarantenne, dando per scontato lo splendore della gioventù e raro e prezioso lo "charme" conseguito col tempo. Ma chi ci darà la lucentezza, i profumi, la freschezza degli anni dorati che vedono da presso i trascorsi adolescenziali e si dipanano ai prodromi della maturità? Poi, nell'accostarsi ad un nettare vetusto, si dovrebbe sempre esercitare il salutare esercizio del dubbio. L'apparato sensoriale gusto-olfattivo ha un grosso limite: la decrescente obiettività percettiva. Uno spettro aromatico difettoso è sempre meno tale se sottoposto a reiterate olfazioni. Di sorso in sorso le nari e le papille gustative registrano sempre meno frizioni, sempre più levigate ruvidità. Dell'esperienza della progressiva minore consapevolezza dei difetti ne è piena la quotidianeità. Solo gravi disarmonie tengono in scacco il naturale processo fisiologico dell'assuefazione .Dovremo diffidare di noi stessi quel tanto che basta per evitare clamorose disincronie fra quanto percepito all'inizio della degustazione e alla fine della stessa. Per non parlare delle prolungate ossigenazioni. Vantaggiose ma senza esagerare. L'aria è e resterà sempre un nemico per il vino una volta giunto nella sua vitrea destinazione finale.
Si favoleggia su vini che richiederebbero "stappaggi" addirittura anticipati di giorni. Leggende come quelle relative alla corretta conduzione di bottiglie vegliarde fuori dalla cantina al ritmo di un gradino al giorno, tanto care alla complessa mitologia enologica francese. Non ultima poi la considerazione che i vini vetusti tendono ad assomigliarsi un po’ tutti: non è esaltante la prospettiva che tra un barolo ed un brunello conservati trent’anni non c’è poi tanta differenza!
Rosario Tiso
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