Che cos’è
l’anima di un vino?E’ quella cosa che
scappa a rintanarsi quando sente parlare di richiami “analogici”,quando monta
la marea del descrittivismo colorito e iperbolico che si pretende frutto di
studio e di scienza,quando la sua idea la si porta in processione come una
madonna ingioiellata. L’anima di un vino è la sua espressività,quell’evidenza
che ammutolisce l’intento codificatorio,e richiede nel bevente una presaga
sensitività. Quanti hanno smarrito questa umana propensione? Certamente tutti
coloro che sono impegnati a lustrare le scarpe al successo e poco hanno affinato
le capacità di discernimento. Occorre che volontà e ambizione si plachino,che i
sentimenti si dipanino più alati del solito,che i pensieri distolti dalla
superficie si rivolgano verso il profondo. Allora si è pronti all’incontro con
un grande vino e si fa una scoperta sensazionale:la grandezza non è
numerabile,né descrivibile. C’è grandezza quando mancano le coordinate del
senso e quando le descrizioni sembrano esaustive è un fenomeno illusorio e
transeunte. Perché un grande vino è un “unicum”.E’ un’aurora boreale del gusto.
Sempre ineffabile,sempre diversa. Quel che si fa di solito nel parlarne è l’arguzia di strappare brani di carne
sanguinolenta dal suo “corpo” per tentare di comprendere e assoggettarne
l’insieme e far risplendere il proprio “ego” di luce riflessa. Tutto vano. Il
grande vino è un’opera d’arte sfuggente e cangiante e la critica enologica è in
larga parte attività illecita e parassitaria.”…Al gusto è morbido e vellutato,decisamente
caldo,sapido e dotato di una piacevole acidità che regala un buon
equilibrio…”…Quante volte si è sentito
pronunciare simili frasi? Ancor peggio è il ricorso a virtuosismi lessicali.
Fatta salva la “poesia”,le nominalizzazioni non svelano la verità. La verità è
nel piacere,è un amplesso,è abbandono. La verità contempla
mugolii,incomprensibili farfugliamenti e dalla sua bocca scaturisce una sorta
di glossolalia emotiva. Siamo pronti? Siamo
disposti a invitare e farci invadere dalla vita? A smettere di difendere
il nostro fortino intellettuale? A demolire steccati ideologici e a
riporre nobilissime armi per giustissime
cause? Se si,possiamo partire nell’ascesa verso il regno del tripudio dei
sensi.
Il grande
vino di cui dovremmo stanare l’anima stasera è il Barbaresco “Sorì Tildin” 1993
di Gaja. A fruirne solo in due:il sottoscritto e Antonio Lioce( in arte AL),al
wine-bar Cairoli. Il nostro è un sodalizio remoto nei tempi e semplice e antico
nei modi. Sin dalla seconda metà degli anni novanta abbiamo compreso che vanno
braccate “da subito” le bottiglie che si presume capaci di suscitare
un’emozione,di alimentare un viaggio,di corroborare un’esperienza. Ed è stato
calcare immantinente il crinale della sospetta eccellenza enoica sulle tracce
dei miti:dare del tu ad Angelo Gaja(Darmagi,Sperss,Barbaresco,Gaja e
Rey…),esplorare l’universo Krug (quante volte il sacro triduo 1988-1989-1990?),affrontare il
ginepraio gustativo costituito dai Supertuscan(…non dimentico il Solaia
1997,top wine mondiale,bevuto subito…). E poi Tokaji e Sauternes,Fratta e La Poja,i
grandi della Rioja e Ribera del Duero(Imperial,Vina
Ardanza, Pesquera…),i premiere cru bordolesi e i grand cru borgognoni(Chateau
Margaux e Cheval Blanc,Michel Gros e Louis Latour…),i gioielli della Cotes du
Rhone(Paul Jaboulet Ainè e i suoi
favolosi Hermitage in testa…). E potrei continuare all’infinito. E tutto per
muovere i primi passi nell’alveo di una
qualità attendibile,per sancire un imprimatur
gustativo credibile. L’inizio del terzo millennio ha portato una rivoluzione del gusto con la
nuova frontiera del frutto e l’ipertecnicismo in cantina da un lato,il ritorno
alla tradizione e alla naturalità dall’altro. Ma con A.L.,non ci siamo smarriti.”Similia cum similibus”,c’è sempre stato
accordo fra noi e subliminale intesa:per
essere bevitori indipendenti,”Bevitori d’Alta quota” fieri e
incontaminati, ci vogliono solo nettari scelti nel proprio segno,e il nostro è
sempre stato quello della piacevolezza, e sperare di ritrovarsi un giorno nobilitati nei sensi.
Perché quelli come noi non seguono le sirene del conformismo,non han rispetto
per nessuno,specie per le ragioni non “esperienziali”,non credono più a niente
se non al “sé”,al “qui” e “adesso”,non bevono astrazioni e danno retta solo ad
una bottiglia finita e ad un bicchiere significativamente vuoto. E allora? Che dire del Sorì Tildin 1993? Noi
non l’avremmo mai conservato così a lungo. Un’occasione ce lo concede alla beva. Spesso un campione ventennale racconta
di antichi fasti,di un equilibrio smarrito nel labirinto dell’ossido,di uno
spettro rancido che serpeggia ad ogni
olfazione e di un gusto laccato e stanco. E certamente si intuisce un passato,nemmeno
troppo lontano,più performante. Gli si riconoscono,nel migliore dei casi,lampi
di nobiltà e il seducente appeal di
una vecchia signora che può ancora catturare gli amanti del genere. Non certo
quanti hanno reso scaltre le loro papille gustative. Con percorsi diversi,magari
semplicemente con un livello di conservazione migliore, avrebbe potuto farcela.
Ma ad ogni miracolo della maderizzazione,col suo portato di dolcezza,fanno
eco centinaia di campioni che
meriterebbero le tubature che sottendono i lavabi,tanto è inopportuno bagnare indegnamente
labbra che si fanno sempre più avide di succulenze e saporose succosità. Ma stasera
qualcosa di grandioso accade:dal cilindro
enoico di Gaja scaturiscono scampoli di vera felicità. Siamo di fronte a
scienza enologica pura:che vino favoloso e indimenticabile il Sorì Tildin 1993!
Incredibilmente espanso,senza il ricorso ad alcuna ossigenazione se non il
semplice “stappo” una manciata di minuti prima dell’assaggio,si apre nel
bicchiere con un bouquet composito a
più riprese. Una prima timida olfazione svela note mentolate e balsamiche.
Poi,una più profonda snasata snida il cuoio buono e un florilegio di spezie.
Alfine fiori e frutti rossi emergono quasi in un rigurgito di gioventù. Al
gusto risulta appetitoso,goloso,con asperità e amaritudini incapaci di
graffiare. E,scortato da tannini setosi,ecco sopraggiungere quel senso di
pienezza armonico che finalmente ammutolisce l’umana tentazione di dire
l’indicibile. Il grande vino si manifesta per negazione. Si possono ricamare
velleitarie descrizioni ma si sa perfettamente solo quello che non è. Il
nettare di Gaja non è banale,statico,inutilmente mastodontico. Né iperacido e
ipertannico come tanti sedicenti “grandi” da aspettare per sempre. Piuttosto
gronda piacevolezza ad ogni sorso. E nell’euforia edonistica si comprende
oscuramente che quel che si può aggiungere in sede di giudizio sotto forma di sovrastruttura intellettuale
finirebbe per deprimere il valore reale del vino limitandone ,negli angusti
confini del verbo,la magnificenza. L’anima del vino sembra per un momento
averci toccato. Nel silenzio e nella contemplazione soffia lo spirito giusto. Ed
un sorriso si disegna sui nostri volti estasiati.
Rosario Tiso
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