Confesso di avere un debole per i
vini che sono lo specchio, il più possibile autentico e genuino, del territorio che li ha generati. Se si presta
un po’ d’attenzione “organolettica” a
quel che si beve , si capisce che i vini costruiti, dove l’interventismo umano
marchia il prodotto e ne determina pesantemente il profilo sensoriale,
quantunque ricchi, seducenti, corretti fino ai prodromi della perfezione,
tendono tutti immancabilmente ad assomigliarsi tra loro: l’aroma e il gusto recati
dallo “schema” enologico di produzione
adottato , in genere mutuato dal sistema
più in voga e di maggior successo del momento,
prevalgono allora su tutti gli altri aromi e gusti contenuti “naturaliter” nel frutto-uva. Le
realizzazioni che ne conseguono si uniformano in una composita, lattiginosa ,nobile
quanto si vuole, raffinata quanto si vuole, fascinosa quanto si vuole,
consorteria in cui ciascun vino ha perso frattanto la propria individualità. I vini cosiddetti
”veri” , dall’espressività poco o nulla artefatta, al contrario sono caratteristici.
Ciascuno ci balza incontro nettamente diverso dall’altro, con sfrontatezza. Può
anche darsi che alberghi in ognuno di loro qualcosa che li renda simili: ma è
la franchezza del nettare, non altro. A tal proposito l’ennesima serata dedicata ,nel ristorante-vineria
“Bacco e Perbacco” di Lucera , a produttori
della scuderia di “Les Caves de Pyrene” , Foradori e Montesecondo nella
fattispecie, è l’occasione per fare un’ulteriore
esperienza gratificante e chiarificatrice. I vini di Elisabetta Foradori mi
sembra di conoscerli da sempre. Agli inizi degli anni novanta mi deliziavo con
il “Granato”, il Teroldego dei vigneti Morei e Sgarzon, i vini da uve alloctone
quali la Syrah dell’Ailanpa e il
Cabernet del Karanar. Poi ho mancato colpevolmente ( anche perché si ha un
bisogno incessante di cambiare!) l’intera fase di transizione aziendale ed
eccomi adesso,
dopo ormai 15 anni di conduzione biodinamica , a dialogare con nettari completamente diversi dai
“convenzionali” di una volta. La cosa incredibile è che Elisabetta mi ha
conquistato ancora. Mi era successo solo con un mostro sacro del vino italiano, Josko Gravner, di cui ho amato gli
stupefacenti Chardonnay del secolo scorso e di cui adoro l'odierna Ribolla in Anfora. Oggi Elisabetta nei suoi
vini sciorina una grande piacevolezza associata ad un esemplare rigore
realizzativo. Nessun infingimento; nessun trucco. Quel che la Natura sottopone
al suo vaglio viene semplicemente scortato verso conseguimenti organolettici altamente
qualitativi senza quasi interferire. Sappiamo che l’ultimo stadio del naturale
processo di trasformazione del vino è l’aceto. Sappiamo di stuoli di muffe e batteri pronti a congiurare per rovinare le fragranze di una materia prima
uvosa ricca e intonsa. Tuttavia la grande sensibilità e la grande tecnica di
una donna del vino così valente e competente come Elisabetta Foradori compiono il miracolo: un liquido luminoso, laccato di solarità, ricco,
profumato, al massimo dell’integrità ottenibile
naturalmente, ci attende nel bevante. Chissà quanto lavoro c’è dietro
simili splendide creazioni! Chissà da quanti successi e poi errori e poi ancora una volta successi
è andato tappezzandosi il suo percorso
umano e professionale! Solo Lei e Dio lo
sanno. Noi sappiamo quel che ci racconta il bicchiere ed è un gran bel sentire.
Se si considerano gli esiti sensoriali in fatto di eleganza, raffinatezza,
sostanza, complessità, siamo al cospetto di una favola a lieto fine che ci riempie il cuore di gioia.
Più recente, più giovane, ma non
per questo meno intrigante, la parabola produttiva di “Montesecondo”, azienda
chiantigiana che vuole riscrivere la storia vinicola del suo celeberrimo
territorio. Si
estende su una superficie di 20 ettari, di cui solo una parte vitata. L’intento
principale del suo titolare , Silvio Messana, è quello di esaltare la tipicità delle sue uve attraverso una
conduzione agronomica biodinamica.
Ma vediamoli questi nettari in
degustazione. Si comincia con l’ Incrocio
Manzoni Fontanasanta 2013 di Foradori .
L’incrocio è fra Riesling Renano e Pinot
bianco e la vigna è quella di
“Fontanasanta”.
Il mosto fermenta a contatto con le bucce per una settimana
in vasche di cemento. Poi il tutto affina in grandi botti di acacia per 12
mesi. Che dire: è un vino profumato, fresco, equilibrato. Dove sono le tare
consuete dei vini biodinamici, le asperità, i vuoti, le disarmonie? Non c’è
traccia di tutto ciò, dei difetti che sovente sono lo scotto di tanta
naturalità. Elisabetta Foradori dimostra
che si possono coniugare l’anima e il
sogno con la sostanza e l’estetica. Riscaldandosi il nettare esplode in un
tripudio di mineralità. Lo si direbbe un Pouilly-Fumè o un Sancerre tale è il
sentore di pietra focaia. Basterebbe questo vino a giustificare il viaggio. Si
passa, già scossi emozionalmente, al Rosso
Toscano 2013 di Montesecondo. Sangiovese e Canaiolo vengono
assemblati in vigna al momento della vendemmia.
La fermentazione si dispiega spontanea in vasche
d’acciaio con
macerazione di un mese, segue l’affinamento per 12
mesi sempre in acciaio. L’acciaio
permette di conservare inalterate le espressioni più genuine del frutto.
Naso e bocca di frutti rossi e note floreali anch’esse
copiose ad ingentilire l’insieme sono i tratti più evidenti di questo vino. Fresco, fragrante, godurioso,
dalla beva furente. Col “Tin” 2011 di Montesecondo si cambia registro. Siamo
nel Comune di San Casciano Val di Pesa con il Sangiovese al 100%. Ma non è qui
il punto. La differenza la fa non solo un’agricoltura biodinamica ma la
coltivazione ad alberello, una resa per ettaro di soli 35 quintali di uve e la
fermentazione alcolica in anfore di
terracotta. Si, la terracotta. Il vaso vinario più ancestrale che esista, che
vede lavorare i lieviti indigeni a diretto contatto con gli umori della madre
terra. Anche l’affinamento si svolge in anfora. E al gusto tutto questo ritorna
in afrori materici che rivestono il
frutto. Il finale è affidato allo
“Sgarzon” 2012
di Foradori. “Sgarzo” significa tralcio
nel Campo Rotaliano. Il vigneto “Sgarzon” è uno dei “cru” storici dell’azienda
Foradori dove alligna il Teroldego . Il carattere del Teroldego è segnato dagli
otto mesi passati in anfora (“tinaja” di Villarobledo, Spagna). Grande corpo e
grande sapidità imperversano nel bicchiere . L’argilla reca i suoi doni
organolettici e l’acidità è importante, garanzia di notevoli possibilità
evolutive. A supporto di cotanta beva lo “chef” Domenico ci ha deliziati con le
seguenti preparazioni culinarie: “Fiore di
zucca al prosciutto crudo con battuto di pomodoro”, “Risotto mantecato alle
cime di rapa con spuma di parmigiano e tartufo nero”, “Costina di maiale cotta
a bassa temperatura con insalatina calda di carciofi e asparagi” e “Terrina di
melanzane in crosta di pane con scaglie di pecorino e salsa balsamica”. Da
“Bacco & Perbacco” , anche in cucina, non si abbandonano mai crinali
sensoriali d’Alta Quota.
Rosario Tiso
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