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mercoledì 11 marzo 2015

La Ribolla “Anfora” di Gravner



Ho sempre sperato che la vita mi elargisse il bacio del “piacere”, quel plurisfaccettato prisma che è il cuore pulsante di ogni azione e la giustificazione di ogni esistenza.
Ispiratore di ogni pensiero, il piacere è vittima di una duplice mistificazione: o lo si edulcora con orpelli filosofici e gli si attribuisce un’immeritata funzione cruciale nella ricerca della felicità…o lo si denigra, associandolo arbitrariamente a pulsioni bestiali e ad ogni genere di banalità e bassezze.
In realtà dovrebbe scaturire ad ogni respiro come il naturale controcanto dell’essere vivi.
Quando posso, godo.
Il senso del mio futuro sta dunque in questo: prima che il destino faccia del mio corpo una manciata di polvere, prima di bussare alle porte del paradiso, voglio procurare ad ogni mia cellula vivente il brivido di un’emozione.
Anche quando degusto una bottiglia di vino, attività impropriamente considerata ludica e poco altro, concorro dunque al compimento della ragione ultima della mia poetica: preparare una trama di piacevolezze che intrecci l’ordito della fatica quotidiana e renda più lieve e gioiosa l’esistenza.
Più che dal vino tecnicamente perfetto, il piacere scaturisce dal vino-emozione. La ricerca di questi rari nettari, il cui assaggio da solo costituisce un’esperienza e giustifica la costruzione di un evento, ci ha condotti in un angolo estremo del Friuli, sulle colline che circondano Oslavia, a cavallo fra Italia e Slovenia, dove campeggia una casa circondata da una vigna: è la dimora di Josko Gravner, produttore vinicolo anarchico e sognatore, e la vigna è quella dove nasce la sua “ribolla”.
I successi degli anni ’90 buttati alle spalle, Josko ha sempre fatto il vino che piace soprattutto a lui e adesso affina la sua ribolla in anfore di terracotta interrate.
Quel che abbiamo bevuto ieri sera al wine-bar Cairoli, in cordata quattro bevitori, è la versione dell’annata 2003.
Vino da un grappolo per pianta.
Da agricoltura “totalmente” biodinamica.
Non c’era nulla di usuale nel bicchiere.
L’aspetto abbastanza limpido mostrava un colore giallo virante sul ramato dalla tonalità mai vista prima.
Allo scuotimento rotatorio di rito, più che rigate di lacrime glicerinose, le pareti del bicchiere esibivano un drappeggio compatto dalla consistenza oleosa.
Attoniti, siamo stati seduti a meditare, ad ascoltare il vino che cresceva, ad annusare i profumi che cambiavano.
Prima l’olfatto ha incontrato la castagna. Poi note mentolate.
Quindi origano e humus e, su tutto, l’inconfondibile speziatura terrosa ceduta dalla permanenza nella creta.
Ci vuole pazienza e tempo per provare a stanare “nuances” inedite e sottili, appena sussurrate, metafisiche.
E’ un vino che ti chiude in un angolo, che ti costringe a cambiare approccio e strategia degustativa.
Non si deve e non si può cercare il già noto, ma si è indotti ad inseguire qualcosa di diverso, di più, forse di meglio!
Il piacere di Josko diventa così, progressivamente, il nostro piacere, il piacere della scoperta. La sua esperienza, subliminalmente, si trasferisce  sorso per sorso  nella nostra, arricchendola, completandola.
E’ una sorta di religioso ritorno alla madre terra.
Che serve all’uomo per far nascere l’uva da cui si fa il vino.
Che poi ritorna all’uomo per ritemprarlo, ridargli un sorriso, regalargli scampoli di felicità.
Quando si perviene a simili livelli di coinvolgimento interiore, la semplice bevuta di una bottiglia di vino “normale” sembra quasi banale, ordinaria, pleonastica.
Bere Gravner significa imboccare una strada originale, con i piedi ben piantati nelle radici della storia e la mente sospesa sul baratro immaginifico del vagheggiamento, dove sincreticamente intelligenza e cuore associano il vecchio al nuovo in una sintesi più alta.
Senza possibilità di ritorno alcuno perché se ne smarrisce il percorso.
Solo altre sintesi e altre evoluzioni sono possibili.
Nuove espansioni dei sensi e dei gusti ci attendono di là da venire.
Rosario Tiso


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