Quando ha chiamato
“POLIPHEMO” il principe dei suoi aglianici, sicuramente Luigi Tecce ha pensato
all’analogia fra la mole mastodontica del Ciclope omerico e la monumentalità
del suo Taurasi.
O forse ha voluto evocare la
circostanza che vede Ulisse indurre il
“gigante” a bere fino ad ubriacarsi.
Non saprei. Propendo per la
prima ipotesi, ancora soggetto alla malìa di un “campione”,dell’annata 2006,di
15 gradi alcolici.
Proveniente da vitigni che
suppongo antichi per l’eleganza e la finezza che il vino sa esprimere già alla
prima timida olfazione, ho potuto degustarlo per la generosità dell’amico
Sandro Maselli nella cornice consueta
del wine-bar Cairoli di Foggia.
Il racconto è un
traboccamento dell’anima….
Un colore rubino saturo e
compatto fa presagire notevole fittezza di estratti che puntualmente si
ritrovano e conferiscono al “bouquet” un respiro multidimensionale.
Il frutto in confettura è in
costante controcanto con un’oscura mineralità derivata da terreni grassi e
freddi.
La speziatura è un aroma appena
sussurrato.
Al gusto drappeggi
glicerinosi che rigano copiosamente la coppa,ammantano lingua e palato in un
caldo e virile abbraccio e si coglie un tannino piacevolmente ruvido e già
perfettamente integrato.
Che dire:un grande vino!
Fino a quando non ho letto la
controetichetta!
Una perentoria didascalia
avverte che non ci sono lieviti selezionati, né enzimi, né batteri malolattici,
né tannini aggiunti, né disacida, né chiarifica, filtrazione, gomma arabica….
Possibile?Non ho mai bevuto
un vino che scaturisse da simili estremi
giungere in sì felice approdo
sensoriale. Mai un vino sostanzialmente biodinamico si era presentato così
pulito,turgido,profumato,esente da difetti appezzabili ai miei recettori
sensoriali.
La perplessità dura poco.
Sorso dopo sorso,la verità
del gusto mi avvince.
L’armonia mi conquista.
La mia esperienza è risibile
goccia nel mare delle infinite possibilità enoiche.
Più che idolatrare le proprie
convinzioni,bisogna credere a quello che contiene il bicchiere.
Credo in quei produttori che
hanno saputo coltivare una propria identità e compiono un percorso che non è
solo professionale ma che, per certi versi, muove dallo spirituale e pretende
di fornire al mondo una personale declinazione della verità.
Quel che non amo sono gli
steccati ideologici.
Come quello che contrappone,anche
aspramente,coloro che fanno il vino dicendo di assecondare la natura a quelli
che la natura pretenderebbero orientarla con tutti i mezzi.
Ho bevuto vini buonissimi
“costruiti” perfetti. Altri, meno riusciti, hanno un che di caricaturale. Come
certi vini “naturali” imbevibili.
Se si lasciassero briglie
sciolte ai sensi nessuno si sognerebbe di assegnare un’aprioristica connotazione negativa a qualcosa che si
registra gradevole.
Ma prevale l’ideologia.
L’ideologia è quanto di più
distante dal bicchiere.
E’ l’attitudine a parlare
della realtà senza osservarla.
E’ l’arido rito della
celebrazione della compiutezza della propria cosmogonia.
Non esiste un sapere
univoco,una magica ricetta,una sapienza esoterica,un percorso preferenziale che
conducono all’immigliorabile vinicolo.
Esistono solo uomini che
immaginano e poi realizzano dei sogni e con i loro vini sanno regalare
autentiche emozioni.
Con saperi diversi,intuizioni
diverse,modalità differenti,illuminazioni e lampi creativi scaturenti da
versanti contrapposti dello
spirito.
Altrettanto valide quando
sanno produrre l’eccellenza.
L’eccellenza in un vino va
scovata.
Il vino si accoglie,giammai
si cataloga.
E’ sempre diverso come
l’attimo che fugge.
Solo amandolo esprimerà l’inesprimibile.
Luigi Tecce è sicuramente nel
novero di quella risma di produttori vinicoli non convenzionali.
Me lo ha detto il suo
“Poliphemo”.
Rosario Tiso
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