Quando un uomo finisce per servire le sue idee, conosce il tempo della
cecità della fede. Certi amanti del biodinamico sarebbero capaci di incensare
vini pieni di difetti e poveri di qualità per il solo fatto che interpretano
alla lettera certe filosofie produttive. A me, sinceramente, interessa che il
vino sia soprattutto piacevole. Certamente senza ricorrere a stregonerie. Ma
che sia tipico, che abbia la struttura per sfidare i decenni, che interpreti
pedissequamente la tradizione può non
bastare. Se non dà emozione, e non riesco ad immaginare un’emozione disgiunta
da una profonda sensazione di piacevolezza, non serve a niente. Arduo godere
di quei vini rancidi ai limiti della
bevibilità che richiedono l’attesa perché subentri l’assuefazione ad ammansire
i sensi e a cancellare difetti e asperità. O bere quei vini spogliati dal tempo
e spacciati per fini ed eleganti, quantunque
magri ed eterei, anche se sono associati a nomi altisonanti e mitici. O quelle
bevande iperacide che tagliano la lingua come lame o la anestetizzano con i
loro tannini uncinati. Si può mai considerare “freschissimo” un vino del 1982, come leggevo tempo fa in un
blog? Questo favoleggiano certi degustatori che spesso, a dispetto della loro
giovane età, pensano “vecchio”. Sicuri che il 99,99% dei lettori non potrà
smentirli, non potendo accedere ai ricercatissimi nettari in questione. Quel che mi appassiona è che un
vino sappia abbinare la struttura
importante, la ricchezza di frutto, la godibilità piena da giovane ad un’eventuale ricchezza di sfumature da
acquisire con l’invecchiamento. Che non
deve essere un’assoluta necessità ma, se ne vale la pena, la curiosità di vedere come un prodotto così
vivo, poderoso, palpitante può evolversi col passare del tempo. Un vino che ti faccia
esclamare: “E’ proprio
l’Ambrosia, il nettare degli Dei”. Quante volte l’abbiamo detto o
sentito dire, parlando di un vino capace
di emozionare, di appagare, di indurre all’elucubrazione mentale, persino di
fondere in un dato momento
caratteristiche non rintracciabili in altri campioni e considerate antitetiche:
perfezione tecnica e naturalità, eleganza e possanza, levità e consistenza. Ma
parlare di un vino che rasenti la perfezione schiude altri significati più
complessi e profondi. Ci rimanda al sogno dell’autentico vigneron, all’antichissimo
desiderio dell’uomo di realizzare l’immigliorabile vinicolo, con fatica, abnegazione,
creatività. E l’uomo rimanda a sua volta all’eterno fattore, al suo operato nel
dispiegare l’universo.
Poiché senza Dio l’uomo non è in grado di sognare, ma senza uomini l’universo sarebbe solo un gelido creato .Produttore e degustatore si perdono nello stesso vagheggiamento. I loro sogni sono necessariamente complementari. Il grande vino è un sogno realizzato. Ma è solo sul tuo silenzio, sul silenzo dell’intelletto, che il vino parla. E parla la lingua degli angeli. E parla di una bontà senza “se” e senza “ma”, non differita ma presente già nel bevante.
Poiché senza Dio l’uomo non è in grado di sognare, ma senza uomini l’universo sarebbe solo un gelido creato .Produttore e degustatore si perdono nello stesso vagheggiamento. I loro sogni sono necessariamente complementari. Il grande vino è un sogno realizzato. Ma è solo sul tuo silenzio, sul silenzo dell’intelletto, che il vino parla. E parla la lingua degli angeli. E parla di una bontà senza “se” e senza “ma”, non differita ma presente già nel bevante.
Rosario Tiso
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