La gente
crede solo a quel che sa già e ama confluire in alvei già solcati da
innumerevoli intelletti. Guai a non fornire loro qualcosa di consueto che li
faccia sentire a casa propria. Ogni originalità è vissuta come una
frustrazione. Anche in un mondo in continua trasformazione l’animo umano tende
ad arroccarsi sulle sue posizioni ed ambisce a poche ed essenziali conferme. In
campo vinicolo ciò costituisce una iattura. Tentare nuove declinazioni del
gusto sperimentando le infinite combinazioni che madre natura offre è una
prospettiva difficilmente praticabile e ancora di più, per chi fa critica
enologica, tentare nuove chiavi di lettura del “romanzo” vino. Così il
“vigneron” dal pensiero indipendente è messo sulle prime in un “angolo” dagli
esperti e dal mercato, salvo poi essere riabilitato sull’onda di una qualche
transeunte marea modaiola. Se non si è un gigante come uomo e produttore alla
stregua, per intenderci, di un Josko Gravner, la risacca culturale può
uccidere. Al “contadino” di Oslavia il coro delle lamentazioni iniziali sulla
svolta “caucasica” non è interessato
granchè. Adesso si fa a gara ad osannare la sua lungimiranza e perseveranza, ma
sarei pronto a giurare che intimamente a molti di quanti oggi lo esaltano non
piacciono i suoi vini. La condizione “sine qua non” per apprezzare i “nettari”
di Gravner è condividerne profondamente la poetica. E credo che sia un percorso
fatalmente esoterico. Ma non è la distanza dei luoghi, la difficoltà
dell’azione o l’esotismo dello scenario
a determinare l’importanza di un impresa. Anche da presso si annida la
possibilità dell’avventura. Anche senza conclamati eroismi. Occorre saperla
riconoscere. Occorre saperla afferrare.
I colori del
vigneto lucano sono forgiati dal sole. Nitidi, pieni, fitti di una grana pulsante
d’energia. La bruna terra, gravida di humus, accoglie il verde brillante dei
tralci primaverili, sotto lo smalto
azzurrino di un cielo tersissimo. Sullo sfondo, il richiamo alla fonte di ogni
vita, l’acqua, nell’arcano profilo di un pozzo. In un simile contesto, nella vocata contrada Solagna del
“Titolo” che sovrasta Barile in provincia di Potenza, prende vita l’omonimo
nettare, un aglianico in purezza. La fattrice, una fascinosa ragazza dei nostri
tempi: Elena Fucci.
L’aria domenicale
è percorsa da un profondo silenzio, rotto soltanto dal chiacchiericcio dei
passanti nei loro consueti caroselli. Nel dorato abbraccio del sole meridiano
rare presenze bordeggiano strade semideserte. Al wine-bar Cairoli di Foggia, vibrante della placida
animazione festiva, è arrivato il “Titolo” 2006. Già bevuto un anno fa, mi colpì per la qualità della
beva; ma ero distratto da altre priorità e non ne afferrai pienamente l’anima, che
per un vino è la sintesi perfetta fra
gli umori del “terroir” e quelli dell’enologo. In verità gli appassionati
foggiani aspettavano il pluridecorato 2007,ma l’esperienza mi ha spesso suggerito
che quando c’è, l’anima del vino prevale sulle contingenze dovute ad annate più
o meno favorevoli. Mi sono perciò deciso a degustarlo ancora, con più
attenzione, con più trasporto. Quel che mi ha subito abbagliato è stata la sua diversità. Ne ho bevuti di
aglianici, spesso eccellenti. Ma il “Titolo” è senza alcun dubbio il più
femminile e suadente di tutti. Si direbbe quasi atipico nella sua setosa
filigrana. I profumi poi tessono
un’odorosa alcova di minuti frutti rossi e spezie, percorsa da strali di
mineralità. La glicerina dipana copiosa i suoi velluti. A detta di Elena
sarebbe persino un po’ spigoloso e acerbo. Francamente non me ne sono accorto.
Da alcol e tannini non procedono asperità. E’ già perfettamente sferico e in
bocca disegna ampie e carezzevoli volute. Elena Fucci ebbe a dire, riguardo ad
entusiastiche congratulazioni piovutele addosso da ogni dove per la folgorante
messe di successi ottenuti di recente, che le sembravano eccessive. Direi
piuttosto che sono il giusto e riconoscente tributo a chi è ancora capace di
emozionare in forza della sua intelligenza e di una solida individualità. In
Lei e nel “suo” vino l’irripetibile miracolo dell’unicità si è ancora una volta
compiuto. Questi sono i “campioni” che salveranno il mondo dall’omologazione e
i sensi dall’appiattimento. Vini che avverti riflesso speculare di chi li forgia(dolcezza
anziché amaritudine; morbidezza piuttosto che ruvidità…)e che osano sortite
gustative inedite, partendo da vitigni che si vorrebbe sempre arcigni ma che
sanno aprirsi a soavità insospettate, in passato sempre celate. A patto di
saperle suscitare come Elena Fucci fa accortamente, modulando le molteplici corde della sua raffinata
sensibilità, da qualche felice vendemmia.
Rosario Tiso
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