Ogni vino all’apertura spalanca immediatamente le
cataratte del gusto. Se il campione è povero di estratti e di essenze,il
profluvio di odori e sapori che ne conseguirà sarà presto esaurito. Allorquando
la materia sarà complessa e variegata ci vorrà del tempo perché tutte le
percezioni sfilino attraverso i varchi espressivi dei sensi all’uopo allertati,come
di folla ammassata e avanzante a monte e lungo una strettoia. E’ una mera
questione spazio-temporale oltre che di interazioni chimico-fisiche di parti
del vino fra loro e l’elemento “aria” sopravveniente. Il degustatore nel frattempo ha bisogno di altrettanti
passaggi e riparametrazioni spazio-temporali nonché mentali per accogliere la
genìa di stimolazioni gusto-olfattive in arrivo. Il vino quindi si concede
sempre tutto e subito. Non è tanto alla metamorfosi del vino che assistiamo
durante assaggi reiterati e prolungati del nettare in esame,quanto
all’emersione della nostra consapevolezza dal groviglio di sensazioni e di pensieri
che promana dalla beva e ci attanaglia nell’atto del discernere,perché solo
quello che riusciamo a cogliere e riconosciamo possiamo poi tentare di spiegare
e definire buono e bello. Sta alla cultura,alla sensibilità,all’esperienza,alla
passione,alla spiritualità e alla pazienza del bevente scoprire tutte le
ricchezze emozionali contenute nel liquido che sciaborda nel bevante e quanto è
congenitamente capace di esprimere sensorialmente. L’anima del vino è in ultima
analisi il riflesso e il prestito dell’anima del degustatore che si accorda
allo spartito mirabilmente scritto dalla natura nella terra e nei pomi e
dall’uomo nell’arte vinificatoria e dispiegato nella sintesi mirabile del
prodotto enoico finale. Nessuna chiusura dunque,nessuna reticenza. Il vino
all’apertura rivela tutto della sua realtà organolettica e viene ghermito
subito quando è semplice. Se invece è di indicibile complessità e di rara
tessitura,foriere di mistero,il degustatore per quanto smaliziato non saprà di
primo acchito decifrarlo e contenerlo e resterà folgorato da un’accecante
nudità:non potrà che avvicinarsi al corpo odoroso con cautela. Tutto qua. Ed è
quello che presumibilmente saremo costretti a fare noi,”Bevitori d’Alta quota”
Rosario Tiso e Antonio Lioce,in arte Ros e A.L.,con la bottiglia che ci
apprestiamo a stappare nella consueta alcova del wine-bar Cairoli di Foggia:lo Chardonnay 1999
di Terlano.
E’ un vino
predestinato,concepito per esaltare il terroir di Terlano e la sapienza
enologica dei suoi facitori. Fa parte del progetto delle “rarità” della cantina
di Terlano,campioni che sostano per una decina di anni sulle fecce fini e sono
poi immessi sul mercato. Una sorta di produzione spettacolare e
quintessenziale atta a mostrare le
massime altezze organolettiche raggiungibili in tutta l’enclave altoatesina e oltre. E’ un vino che sfida i più grandi
chardonnay del mondo a singolar tenzone e senza timori reverenziali:uno stuolo
di uomini indomiti e lungimiranti hanno da quasi un secolo lavorato per questo.
Alla prima valutazione
mi pare che alla personalità di questo vino,in altre fasi evolutive forse più
intelligibile e netta,non si possano attribuire connotazioni precise,disperse
come sono in una prismatica e infinita dissolvenza gustativa. Come accade con i
nettari grandissimi e indimenticabili,è un vino che non si riesce a raccontare
compiutamente e suggerisce il silenzio. Ma non dobbiamo aver paura della
passione naturale,non dobbiamo considerarla una teoria o un’astrazione. E’ il
momento di evocarla nella sua realtà e di ridurre lo spazio che solitamente
destiniamo all’intelligenza. Senza opporre resistenza,occorre che si lasci
sgorgare spontanea la narrazione dei sensi senza temere la sua purezza
espressiva. Qui nel bicchiere,nella trama del campione di Terlano,regna
un’armonia densa e piena e la verticalità,la salinità,la saporosità non sono
cuspidi gustative miranti a stupire
palati dalla grossolana tessitura e dal
superficiale approccio,ma note integrate
in un placido tondo,vibrante ma delicato,piacevole e naturale come il
primigenio frutto pur nella concia di un prodotto che ambisce all’eterno. Ogni
snasata,ogni sorso rivela tracce olfattive e gustative innumerevoli e
ondivaghe. La sensazione di un incalzante
deja vu ci attanaglia:saranno
forse la banana,l’ananas e l’albicocca che balenano a tratti o i puri strali di
limone emergenti da un letto minerale e salmastro o infine l’eleganza e la
finezza che esalano ad ogni respiro di questo nettare celeste a sortire un
simile effetto?Vano il tentativo di
decifrare ulteriormente una materia così vasta,complessa,eterea. Meglio
astenersi e godere dell’unità.
Anche noi
attendavamo trepidanti l’uscita dell’ennesima “rarità” di Terlano. La culla del
legno e la lunga permanenza in acciaio sulle fecce fini nella loro duplice
funzione protettiva e arricchente hanno prodotto le conseguenze sperate:siamo
al cospetto soprattutto di una suadente sinfonia. E il cosiddetto “metodo
Stocker”,dal nome dell’ex enologo della cantina,ha consegnato alla collana dei
ricordi un’altra imperdibile perla enologica. Non resta che abbandonarsi al
piacere!Che sopraggiunga un’estasi di raggiante luminosità e di splendida
maturità! Se si è capaci solo in parte di dar voce alle emozioni attraverso le
parole poco importa:i dettagli esasperatamente tecnici,le puntuali evocazioni
esperienziali sono appannaggio della razza dei degustatori di professione. Noi
siamo qualcosa di diverso: semplicemente, unicamente, ”Bevitori d’Alta quota”.
Rosario Tiso
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