Un grande
vino nasce da una grande idea.
Un’idea è
grande quando da arcane sorgenti emerge e genera infinite possibilità che solcano l’universo e da remote lontananze
fanno ritorno all’Io, rinsaldandolo e fondendosi
nel suo nucleo,al punto da risultare impossibile distinguere il Sé
dall’infinito. In pratica questo è il paradigma del grande vino:da un campo
olfattivo intenso,ampio e complesso,si passa per osmosi al dominio gustativo
senza il benché minimo urto o frizione,a confluirvi placidamente per una sorta
di naturale contiguità. Quando al palato non è richiesto un ulteriore settaggio
dei sensi,una nuova riparametrazione dei target organolettici,si è al cospetto
di un tutto armonico,equilibrato,fuso:appunto,il grande vino. Il resto, tanti
sedicenti “grandi”, sono divertissement
o rebus enologici. Ma si è
lontani dalla salutare sobrietà e serietà della competenza,dello studio,della
scienza. Nel migliore dei casi si è messa in gioco la creatività; nel peggiore
si dispiega un delirio di onnipotenza.
Non inganni
l’immagine pittoresca,il clichè:il
moderno “vigneron” è imbevuto di cultura vinicola. Nulla di improvvisato dunque
nel suo operato. Ma,a differenza degli “inquadrati” nell’enologia trionfante e
tecnologica,ha in sé un qualcosa di istintivo e intuitivo che trasferisce in
una straordinaria sicurezza ed efficacia nei metodi di vinificazione. E’
senz’altro alla ricerca dell’eccellenza della materia prima e della pulizia nel
processo produttivo,ma le sue migliori energie non sono investite
nell’approntare cantine smaglianti,luminose,luccicanti e ordinate che pur assicurano una corretta
trasformazione dell’uva,quanto nell’incalzare un’antica vitalità
enoica,nell’evocarla e
promuoverla,snidarla per poi proteggerla magari con le armi attuali della
scienza. A parte leggere solfitazioni, spesso solo all’imbottigliamento, l’autentico
vigneron poco altro fa. A volte il problema della modernità nel
mondo del vino è il suo folle cinismo. Con assoluta disinvoltura,si scivola nel
più bieco disprezzo della tradizione,quasi come se saperi sedimentati da secoli
fossero “solo” un ostacolo e non un’opportunità,un valore aggiunto. Si punta a
percorrere vie dritte,ipertecniche,a scavare tunnel intellettuali per eludere
le curve della memoria…tortuose,umorali,carnali…fino a ricorrere spesso a orge
di travasi, filtraggi, refrigerazioni, pastorizzazioni, controlli di ogni
genere per imbrigliare il vitalismo spontaneo del frutto-uva. Renderlo asettico come un
alimento industriale, perché c’è tanta gente a cui piace la pacatezza e il
nitore di un prodotto inerte e performante insieme. Perché in tanti non ci
mettono l’anima nella degustazione (vi si cimentano anche gli astemi!!). Ma
l’appassionato si intristisce quando coglie la sottesa,pedissequa sequela di un
disciplinare. Sembra che l’unico obiettivo di taluni produttori sia quello di estorcere
alla natura una fermentazione per poi orientarla fino al raggiungimento del
proprio scopo organolettico.
Non sono un
professionista dell’assaggio e forse non lo sarò mai. L’entusiasmo che provo
all’inizio di ogni percorso sensoriale, specie se insolito, ignoto, emozionale,
mi condiziona positivamente. E se l’assaggiatore professionista può scegliere
di sputare il vino e così interrompere il flusso di coscienza che minaccia
sempiternamente di imboccare il versante puramente edonistico della beva, io
assorbo tutto, liquido e sensazioni, rischio la salute e varco i confini della
presunta oggettività per declinare immagini soggettive,dove solo il piacere e
l’estasi sensoriale restano come estremi figuranti a dettare modi,tempi ed esiti del viaggio.
Nella grande,
astratta, ideale Casa dei “Bevitori
d’Alta quota” dai sensi tracimano parole e un fraseggio amoroso, da copiose libagioni e fitte conversazioni solo il caldo e
appagante abbraccio di varie umanità. Sono solo due le sue stanze .Una,quella dei
produttori,da cui mutuare i nettari che sono , e non andrebbe mai dimenticato, gli
assoluti protagonisti del viaggio eno-sensoriale. L’altra,il luogo….vineria-ristorante-wine
bar che dir si voglia…che accoglie il Simposio,gli amanti del Dio-Bacco,pronti
ad abbandonarsi al vagheggiamento sul crinale del godimento fisico e
spirituale. Stasera, nella bellissima piazza Duomo di Lucera,un gruppo di amici bevitori (tra gli altri Paolo Pallozzi,Rosario
Tiso,Sandro Maselli,Pina l’Altrelli e di tanto in tanto i titolari del locale)sembrano
aver trovato la loro Casa. C’è il luogo,il wine-bar “Bacco e Perbacco” nella
sua nuova ,superba collocazione e ci sono i produttori e gli ineffabili vini
della selezione targata “Les Caves de Pyrene”. Nell’ordine:l’Alfiere-zero
dosaggio-100% ortrugo di Croci,lo Champagne Cuvée “Les Murgieres” Reserve Nature
di Francis Boulard,il Riesling 2011 di Martin e Anna Arndorfer,il lambrusco
Terra Luna dell’emiliana “La Collina”,il Sancerre Le Rouet 2009 del Domaine
Etienne e Sebastien Riffaut e lo Champagne “Lalore” Brut Nature Blanc des
Blancs di Th. E V. Demarne-Frison.
Pescando fra
le prelibatezze del menù,si è cercata una successione armoniosa dei cibi. I vini invece fanno storia
a sé. Con Les Caves de Pyrene sembra di cogliere sempre la scelta opportuna. La
progressione si gioca sulla piacevolezza,sulla pulizia,sulla golosità di
nettari dimostratisi ancora una volta performanti. L’Alfiere di Croci ha
sorpreso per l’originalità,il nerbo acido,la succulenza. Di Francis Boulard non
saprei cosa aggiungere al già noto:da un percorso biodinamico una bollicina di
“forma” e di “sostanza”. Il Riesling,bevuto di recente,ha confermato quanto di
buono aveva espresso all’esordio:prodotto dalla beva appagante per
profumi,complessità,equilibrio. Il Lambrusco ha costituito la curiosità. Vino
apparentemente leggero e beverino,lancia strali corposi e astringenti con un accenno
di elegante amaritudine e mostra una livrea di tutto rispetto dal colore
intenso e compatto. Il Sancerre è stato senza dubbio la star della serata:grande interpretazione della denominazione di
origine che meriterebbe il perfetto silenzio della critica più che imperfette
descrizioni. Eppure come non annoverare una tipicità esplosiva nella mineralità
e nei sentori fumè,coniugata con
morbidezza e acidità esemplari e non così scontate a certe latitudini. Dulcis in fundo,lo Champagne di
Demarne-Frison:perfetto nel ristabilire il nitore palatale pesantemente
offuscato da sì copiose libagioni e sbevazzamenti. Quasi
superfluo raccontare la chiusa.
Ancora una
volta di noi si può dire:felici e beventi.
Rosario Tiso
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