In ognuno di
noi c'è un Io statico ed uno erratico. Il contadino e il cacciatore. E, come se
non bastasse tale dicotomia a rendere l’esistenza un rompicapo, ogni età
mentale ha la sua velocità, le sue strade, un diverso modo di soffermarsi sui
dettagli, di gustarne l'essenza.
Si può dire, banalmente, che al primo stadio della consapevolezza si sviluppa un discernimento rapido, senza il senso del particolare.
Poi le esigenze si affinano, si passa ad una condizione più articolata e si riconoscono i piccoli mondi che fioriscono lungo il cammino. In piena maturità si scopre una terza via, che svela sentieri meno battuti, assaporando tutto quel che colpisce i sensi e l'immaginazione.
Dopo tanto girovagare, di solito, si sperimenta la pienezza della vita.Finalm ente la parte più dinamica di noi non è in conflitto con quella più contemplativa. Viaggiano a braccetto e si dipanano sinergie insospettate. L'una svela l'altra. L'una serve l'altra. In un continuo rincorrersi di sensazioni.
Quanta follia risiede nell'impedirsi una naturale evoluzione verso stili di vita più consoni alle proprie inclinazioni e più somiglianti all'incedere del tempo.
Per aderire a falsi modelli di felicità.
Si coltiva diffusamente il pregiudizio che il benessere risieda nella sempiterna gioventù, nella mobilità, nell’inesauribile dinamica aspirazione-meta. E nel possedere ricchezze materiali. In realtà, come l'umanità pensante di tutte le epoche e di ogni luogo ha compreso, se non si giunge all'armonia non si possiede nulla. Se non si fondono i desideri in un’idea non si è nulla. Come nel mondo del vino. Come nel vino. Dolce e amaro, acidità e sapidità, durezze e morbidezze devono bilanciarsi. Altrimenti si manca l'eccellenza. Anche con ricchezza d'estratti e mastodontica struttura si può fallire il risultato di una superiore gradevolezza.
Un grande vino è soprattutto una realtà circolare, sferica, senza spigoli.
Dove i sensi possono avanzare a piedi nudi come su di una soffice distesa di sabbia. Detto questo, c’è di più. Molto di più. Oltre le colonne d’Ercole della corretta grammatica enologica c’è un oceano di poesia da tentare e da esplorare. Dove i dinamismi della ricerca e della tecnologia si accordano con la contemplazione della natura. In simile contesto, nel bevitore appassionato a lungo si dibattono la sua anima stanziale e quella randagia. La prima trova in ogni piacevolezza una sponda utile per mettere radici e stabilire il proprio dominio. La seconda si desta al minimo refolo di novità che la snida e la ravviva, fino ai prodromi del volo. La maturità del gusto richiede un livello ancora più alto di discernimento e comprensione: occorre diventare animali d’altura, abitatori di creste e crinali, per dominare scenari del gusto sempre più ampi. Dopo il bevitore stanziale e quello randagio ecco l’ulteriore raggiungimento: il bevitore estatico, l’incarnazione perfetta del “Bevitore d’alta quota”. Solo la quintessenza dell’eccellenza è ammessa nel tempio palatale. Solo un Io rarefatto e puro può officiare il sacro rito della beva. Nessuna appartenenza, nessuna fede, nessuna valutazione se non l’insindacabile misura dell’estasi nella realizzazione del supremo “mandala” gustativo: il vino percepito come pura emozione. Nessun valore assoluto, ma un proprio valore assoluto. Nessuna illusoria libertà, ma un senso perfetto di proprietà. Del senso, dell’assoluto. Il bevitore estatico, il perfetto spirito d’alta quota, riconosce solo esperienze consustanziali. Necessario l’accordo col creato e l’affinità col creatore. E possono così placarsi i desideri, che sono entità spirituali che si incarnano nei momenti più belli della nostra esistenza, tocchi amorevoli ,dolci carezze profuse ai loro oggetti e fonte di vita per chi li coltiva, speranza e futuro del cuore che li accoglie. Che cos’è il vino? Questo è il vino: memorie, vibrazioni, fantasie. Altro che doc e docg! Che cos’è il vino? Questo è il vino: un racconto, un’emozione. Solo quando si incontra un vino “vero” si ha la percezione della falsità altrui, della contraffazione del gusto; solo la comparazione svela la verità. Il sapore che al primissimo contatto pare abboccato, al muoversi della lingua rivela sapidità e acidità e, riverberantesi nella cavità orale ,sprigiona tutta la sua complessa aromaticità. Il vino-racconto, il vino-emozione scaturisce da una mozione artistica o quasi artistica e non è possibile che provenga da un’attività spiccatamente commerciale. Giammai industriale. La natura va osservata, ascoltata, compresa. Per un miglior compromesso tra il naturale processo della natura e l'azione dell'uomo sarebbe auspicabile l’inutilizzo della chimica di sintesi e il mancato ricorso a tutte quelle operazioni atte a far del vino una bevanda forzatamente piaciona e golosa. A volte vini infami sono tecnicamente ineccepibili e vini fuorilegge squisiti, perché l’eccellenza non è mai questione di forme ma di spirito. A picco e in bilico su di un precipite spalto culturale che si affaccia sul placido conformismo, va implementata la ricerca di vini “veri” che non è mera attività estetizzante o nostalgica ma precisa azione politica di contrasto e di resistenza. Basterebbe ingenerare e sostenere una fitta rete di piccoli produttori scrupolosi, basterebbe un po’ di religiosità, mai richiesta dove è necessaria, e fiorirebbe una nuova etica della coltivazione e della produzione. E di certo nuovi “target” sensoriali. Il progresso, senza necessariamente rinunciare alla civiltà! Non c’è contraddizione fra costumi illuminati vecchi e nuovi, perché è proprio questo che trovo nei nettari che mi danno emozione. Tutto quello che, da sempre, rintraccio nei vini di Claudio Icardi. La mia crescita sovente ha incrociato e si è nutrita della sua. I vini di Claudio hanno contribuito a fare del “bevitore randagio” che era in me, l’Esteta. Dal Barbaresco “Montubert” al Pinot nero “Nej”, dalla Barbera “Nuj Suj” alla “Surì di Mu”,dai Pafoj bianco e rosso al Monferrato rosso e all’esperienza del “Dadelio”, ogni sua singola etichetta risveglia memorie di infinite piacevolezze. Fino alla conferma odierna, l’ennesima. Il Barolo “Parej” 1999 mi è davanti. Procedo all’apertura della bottiglia, non senza aver preventivamente acceso la beva con uno champagne e allertato i sensi. Il vino va un po’ ossigenato. Dalla vitrea prigione in cui è stato rinchiuso, deve ritrovare l’aria e la luce e occorre un po’ di cautela, quasi fosse un prigioniero costretto da anni in una buia segreta. Qualche minuto e l’iniziale, spesso sentore di chiuso svanisce. Il colore si palesa, i profumi presto si dispiegano e ci parlano di un campione vivo e palpitante, ancora in fase di espansione. Al gusto resto folgorato. Che vino buonissimo hai fatto, Claudio! Come per i grandissimi nettari del pianeta, sarebbe stucchevole e riduttivo, nonché impossibile, l’automatico snocciolamento delle sue qualità. Simili livelli di piacevolezza suggeriscono la meditazione e il silenzio. Quanto può importare ai sensi l’essere edotti sulle tecniche agronomiche impiegate? Cosa aggiunge al sublime la descrizione dettagliata della complessità delle trame odorose e la multidimensionalità dei sapori? Per la cronaca il Barolo 1999 fatto da Icardi “a modo suo” ,“Parej” ,è balsamico e speziato ma con ricordi ancora vividi di una fruttuosità e florealità primigenie non del tutto cancellate dalla terziarizzazione perché pulizia, franchezza e integrità del campione ne hanno preservato il riverbero. Grande esecuzione enologica per un vitigno a giusto titolo annoverato fra i grandi. Eccellente partitura per un talentuoso direttore d’orchestra. Il cerchio si chiude. Sogno e desiderio approdano sulle rive dell’appagamento. Ancora una volta sono gli uomini appassionati, come Claudio Icardi, a salvare il mondo dalla mediocrità. Con il piacere. Con la bellezza.
Si può dire, banalmente, che al primo stadio della consapevolezza si sviluppa un discernimento rapido, senza il senso del particolare.
Poi le esigenze si affinano, si passa ad una condizione più articolata e si riconoscono i piccoli mondi che fioriscono lungo il cammino. In piena maturità si scopre una terza via, che svela sentieri meno battuti, assaporando tutto quel che colpisce i sensi e l'immaginazione.
Dopo tanto girovagare, di solito, si sperimenta la pienezza della vita.Finalm ente la parte più dinamica di noi non è in conflitto con quella più contemplativa. Viaggiano a braccetto e si dipanano sinergie insospettate. L'una svela l'altra. L'una serve l'altra. In un continuo rincorrersi di sensazioni.
Quanta follia risiede nell'impedirsi una naturale evoluzione verso stili di vita più consoni alle proprie inclinazioni e più somiglianti all'incedere del tempo.
Per aderire a falsi modelli di felicità.
Si coltiva diffusamente il pregiudizio che il benessere risieda nella sempiterna gioventù, nella mobilità, nell’inesauribile dinamica aspirazione-meta. E nel possedere ricchezze materiali. In realtà, come l'umanità pensante di tutte le epoche e di ogni luogo ha compreso, se non si giunge all'armonia non si possiede nulla. Se non si fondono i desideri in un’idea non si è nulla. Come nel mondo del vino. Come nel vino. Dolce e amaro, acidità e sapidità, durezze e morbidezze devono bilanciarsi. Altrimenti si manca l'eccellenza. Anche con ricchezza d'estratti e mastodontica struttura si può fallire il risultato di una superiore gradevolezza.
Un grande vino è soprattutto una realtà circolare, sferica, senza spigoli.
Dove i sensi possono avanzare a piedi nudi come su di una soffice distesa di sabbia. Detto questo, c’è di più. Molto di più. Oltre le colonne d’Ercole della corretta grammatica enologica c’è un oceano di poesia da tentare e da esplorare. Dove i dinamismi della ricerca e della tecnologia si accordano con la contemplazione della natura. In simile contesto, nel bevitore appassionato a lungo si dibattono la sua anima stanziale e quella randagia. La prima trova in ogni piacevolezza una sponda utile per mettere radici e stabilire il proprio dominio. La seconda si desta al minimo refolo di novità che la snida e la ravviva, fino ai prodromi del volo. La maturità del gusto richiede un livello ancora più alto di discernimento e comprensione: occorre diventare animali d’altura, abitatori di creste e crinali, per dominare scenari del gusto sempre più ampi. Dopo il bevitore stanziale e quello randagio ecco l’ulteriore raggiungimento: il bevitore estatico, l’incarnazione perfetta del “Bevitore d’alta quota”. Solo la quintessenza dell’eccellenza è ammessa nel tempio palatale. Solo un Io rarefatto e puro può officiare il sacro rito della beva. Nessuna appartenenza, nessuna fede, nessuna valutazione se non l’insindacabile misura dell’estasi nella realizzazione del supremo “mandala” gustativo: il vino percepito come pura emozione. Nessun valore assoluto, ma un proprio valore assoluto. Nessuna illusoria libertà, ma un senso perfetto di proprietà. Del senso, dell’assoluto. Il bevitore estatico, il perfetto spirito d’alta quota, riconosce solo esperienze consustanziali. Necessario l’accordo col creato e l’affinità col creatore. E possono così placarsi i desideri, che sono entità spirituali che si incarnano nei momenti più belli della nostra esistenza, tocchi amorevoli ,dolci carezze profuse ai loro oggetti e fonte di vita per chi li coltiva, speranza e futuro del cuore che li accoglie. Che cos’è il vino? Questo è il vino: memorie, vibrazioni, fantasie. Altro che doc e docg! Che cos’è il vino? Questo è il vino: un racconto, un’emozione. Solo quando si incontra un vino “vero” si ha la percezione della falsità altrui, della contraffazione del gusto; solo la comparazione svela la verità. Il sapore che al primissimo contatto pare abboccato, al muoversi della lingua rivela sapidità e acidità e, riverberantesi nella cavità orale ,sprigiona tutta la sua complessa aromaticità. Il vino-racconto, il vino-emozione scaturisce da una mozione artistica o quasi artistica e non è possibile che provenga da un’attività spiccatamente commerciale. Giammai industriale. La natura va osservata, ascoltata, compresa. Per un miglior compromesso tra il naturale processo della natura e l'azione dell'uomo sarebbe auspicabile l’inutilizzo della chimica di sintesi e il mancato ricorso a tutte quelle operazioni atte a far del vino una bevanda forzatamente piaciona e golosa. A volte vini infami sono tecnicamente ineccepibili e vini fuorilegge squisiti, perché l’eccellenza non è mai questione di forme ma di spirito. A picco e in bilico su di un precipite spalto culturale che si affaccia sul placido conformismo, va implementata la ricerca di vini “veri” che non è mera attività estetizzante o nostalgica ma precisa azione politica di contrasto e di resistenza. Basterebbe ingenerare e sostenere una fitta rete di piccoli produttori scrupolosi, basterebbe un po’ di religiosità, mai richiesta dove è necessaria, e fiorirebbe una nuova etica della coltivazione e della produzione. E di certo nuovi “target” sensoriali. Il progresso, senza necessariamente rinunciare alla civiltà! Non c’è contraddizione fra costumi illuminati vecchi e nuovi, perché è proprio questo che trovo nei nettari che mi danno emozione. Tutto quello che, da sempre, rintraccio nei vini di Claudio Icardi. La mia crescita sovente ha incrociato e si è nutrita della sua. I vini di Claudio hanno contribuito a fare del “bevitore randagio” che era in me, l’Esteta. Dal Barbaresco “Montubert” al Pinot nero “Nej”, dalla Barbera “Nuj Suj” alla “Surì di Mu”,dai Pafoj bianco e rosso al Monferrato rosso e all’esperienza del “Dadelio”, ogni sua singola etichetta risveglia memorie di infinite piacevolezze. Fino alla conferma odierna, l’ennesima. Il Barolo “Parej” 1999 mi è davanti. Procedo all’apertura della bottiglia, non senza aver preventivamente acceso la beva con uno champagne e allertato i sensi. Il vino va un po’ ossigenato. Dalla vitrea prigione in cui è stato rinchiuso, deve ritrovare l’aria e la luce e occorre un po’ di cautela, quasi fosse un prigioniero costretto da anni in una buia segreta. Qualche minuto e l’iniziale, spesso sentore di chiuso svanisce. Il colore si palesa, i profumi presto si dispiegano e ci parlano di un campione vivo e palpitante, ancora in fase di espansione. Al gusto resto folgorato. Che vino buonissimo hai fatto, Claudio! Come per i grandissimi nettari del pianeta, sarebbe stucchevole e riduttivo, nonché impossibile, l’automatico snocciolamento delle sue qualità. Simili livelli di piacevolezza suggeriscono la meditazione e il silenzio. Quanto può importare ai sensi l’essere edotti sulle tecniche agronomiche impiegate? Cosa aggiunge al sublime la descrizione dettagliata della complessità delle trame odorose e la multidimensionalità dei sapori? Per la cronaca il Barolo 1999 fatto da Icardi “a modo suo” ,“Parej” ,è balsamico e speziato ma con ricordi ancora vividi di una fruttuosità e florealità primigenie non del tutto cancellate dalla terziarizzazione perché pulizia, franchezza e integrità del campione ne hanno preservato il riverbero. Grande esecuzione enologica per un vitigno a giusto titolo annoverato fra i grandi. Eccellente partitura per un talentuoso direttore d’orchestra. Il cerchio si chiude. Sogno e desiderio approdano sulle rive dell’appagamento. Ancora una volta sono gli uomini appassionati, come Claudio Icardi, a salvare il mondo dalla mediocrità. Con il piacere. Con la bellezza.
Rosario Tiso
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