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venerdì 23 gennaio 2015

Chateau d'Yquem



L’attenzione avvolge di senso ogni cosa.
L’attenzione disvela la bellezza racchiusa nello scrigno segreto dell’essenza.
L’attenzione permette di fare merletti con i fili penduli dei brandelli di realtà che ci circondano.
L’attenzione decripta codici che da millenari arcani governano il mondo.
L’attenzione è richiesta al degustatore quando incontra un nettare divino.
Ma non è risolutiva l’attenzione, ogni tecnicismo, ogni disanima  razionalmente condotta nell’alveo del proprio livello di consapevolezza, per spiegare  una magìa che si ripete da oltre 400 anni e che porta il nome più seduttivo e seducente della storia del vino: Chateau d’Yquem.
Non è sufficiente sapere del miracolo della “botrytis cinerea”  che attacca e imbrunisce gli acini ammuffendoli e seccandoli fino a parossistiche concentrazioni zuccherine.
Non basta capirne  la genesi nell’incontro fortunato fra le acque fredde del fiume Ciron che si mischiano con quelle più calde della Garonne, dando origine ad una nebbiolina che ammanta i vigneti e ne ingenera la formazione.
Né il racconto del “sistema” Yquem.
Un Castello.120 ettari di vigne d’intorno. Una plurisecolare proprietà  che l’acquisizione ad opera del gruppo LVMH non ha scalfito e modificato nella conduzione della tenuta.
Lo stesso manipolo di persone lavora presso lo Chateau da tempo immemorabile e ci vive come in una realtà separata, una sorta di “hortus conclusus”, dove non è cambiata l’assidua ricerca dell’eccellenza nella perfezione e nell’eternità di ogni gesto quotidiano.
La coscienza vacilla al cospetto di un mito.
Bisogna andare oltre.
Bisogna spiccare il volo. Della fantasia, dei desideri, dei sensi.
Cessare la recita interiore che sostanzia la nostra persona. Abolire l’invadenza di pensiero e linguaggio. Interrompere l’infinito vizioso della nostra esperienza. E lasciarsi andare ad una folle corsa emozionale.
Una semplice etichetta bianca reca caratteri dorati quasi a fare da “pendant” con il  liquido raggiante svelato dal vetro chiaro della bottiglia.
Sembra il prodotto di alchimisti medievali che distillavano ambrosie e fondevano metalli preziosi alla ricerca della pietra filosofale, del  segreto capace di trasformare tutto in oro.
Ad Yquem il sogno degli esoteristi  di ogni tempo si è realizzato.
Complessità e persistenza non sono numerabili.
Questo 1998, che brilla nel bicchiere come una scheggia di solarità, ha nel miele, innumerevoli frutti, innumerevoli fiori, la sua cifra olfattiva. Indefinitamente riverberantesi in bocca in una corale sinfonia di sapori.
Chi voglia capire cos’è la grassezza e l’untuosità si avvicini ad un bicchiere di Yquem. Strati e strati di spessi drappeggi glicerinosi, ricami di archetti e lacrime di poderoso estratto rivestono la superficie del bicchiere.
Una volta scosso, il liquido permane.
E getta lampi, in fragranti e cristallini strali, di luce odorosa.
Gli aromi sono inimitabili. Ecco perché Chateau d’Yquem produce il miglior  Sauternes che palato abbia mai lambito.
Rosario Tiso

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