Il mondo del
vino a volte è una Babele,popolata da estremismi di ogni sorta. Ognuno fa a chi
grida più forte;ognuno sembra perso nelle pieghe di un insindacabile fortilizio
di punti di vista e smarrito nelle labirintiche spire del proprio gusto. Non si
è ancora capito che avere opinioni “certe” è un limite e si rischia di fallire il
punto:il conseguimento della piena conoscenza. Chi possiede e coltiva da tempo
la passione per il nettare di Bacco sa che non troverà pace fino a quando non avrà stanato la verità
organolettica. E a pensarci bene non può albergare all’interno di
qualche steccato: non può che essere un ambito vastissimo ,forse conchiuso ma
onnicomprensivo. Così quando ci sembra di vagare senza un approdo nel mare
sconfinato delle possibilità enoiche,ecco spirare una brezza nuova che
prefigura una rotta inaspettata verso terre da esplorare ed acquistare alla
propria esperienza. Affinità elettive allora si asserpano a quelle che si
ritenevano ispirazioni domestiche e
poetiche incomplete e si fanno incontri,si aprono porte della mente e dei sensi
di cui si ignorava l’esistenza. Questo mi accade ogni qualvolta bevo un
vino,specie se per la prima volta. Per amorose suggestioni iniziano ad
intrecciarsi parole e sensazioni recate dall’esperienza con le emozioni
assicurate dalla presenza emotiva della curiosità,dote spirituale e
caratteriale il cui valore è troppo spesso sottovalutato. Senza curiosità non
c’è vita. E’ quella scheggia di follia che dà respiro e colore a qualsiasi
mozione che viene da dentro,dal sottosuolo dell’interiorità. E’ la curiosità a dare una chance a qualsiasi
prodotto che aspiri ad una qualche valenza gustativa. Il vino è sempre
interessante e foriero di riflessioni
anche nelle espressioni meno felici. Poi,se proprio non dovesse
parlarci,si può passare la mano.
Le mie corde
adesso vibrano per i vini che cercano l’eldorado nella buccia,ove si annida il
meglio,e mutuano da essa una marcia in più nei profumi e nei sapori,nel
conseguimento di una più alta e qualificata complessità,nel sempre gradito e
ricercato potenziale di longevità. Nella mia attuale stagione evolutiva sono
rimasti al palo i vini bianco-carta,i rosati dal colore “buccia di cipolla di
Tropea” e i rossi figli del legno ,delle sovraestrazioni, per intenderci i “vinoni”. Ho da qualche tempo inaugurato lo
splendido filone dei vini imperfettamente perfetti,umorali e viscerali prima
che complessi,e soprattutto non necessariamente rispondenti a quelle menate preistoriche sulla quantità e riconoscibilità delle
nuances che un grande vino “dovrebbe” esprimere. Non m’importa di quanti e
quanto riconoscibili sentori o sapori debba essere dotato o poterne indovinare
vitigno e giacitura o stigmatizzarne lo stato evolutivo. C’è qualcosa di più
grande: il godimento fisico e spirituale che se ne ricava. E chi ritiene che
debba esserci qualcosa da imparare sappia che non c’è lezione più importante di
questa.
Stasera,in occasione dell’evento organizzato da Massimo
Lanini nel suo ristorante “Le Giare” di Bari e che vede protagonisti Christian
Bucci nell’insolita veste di chef(fantastiche la pizza,le animelle con carciofi
maritati, il coulis di cachi, gelato al pistacchio, marron glacèe, meringa…) e “Les
Caves de Pyrene”, ho voglia di uscire
allo scoperto. Il vino fruga dentro ai ricordi e di laggiù tira fuori
esperienze,immagini,fatti di cui non era rimasta apparente traccia. Quando si
giace sovraccarichi di memorie enoiche e ci si accosta ad un vino,l’arte della
maieutica la svolge lui,il nettare che si ha davanti! E’ lui che rimette in
ordine una valigia traboccante di
nozioni e sensazioni che per neutralizzarla e contenerla non basterebbe neppure
il tentativo di adagiarvisi sopra. Fatta chiarezza con la forza della realtà
organolettica,si può cominciare ad elaborare il racconto enoico. E’ il Piemonte
stasera a “miracol mostrare”. Quattro gli interpreti fra i più valenti dell’intero panorama vitivinicolo
italiano: Fabrizio Iuli di Cascina
Iuli con la Barbera “Umberta” 2012 e il
Pinot Nero “Nino” 2011,Nicoletta Bocca
di San Fereolo con un Langhe bianco 2009 e il Dolcetto 2009,Paolo Veglio di
Cascina Roccalini con il Barbaresco 2010 ed Ezio Cerruti con il Moscato passito
“Sol”. Partiamo da Iuli. Mai da vini riconducibili al territorio di Montaldo e
della Val Cerrina ,fra le montagne del
Monferrato,erano scaturite simili emozioni . Nessuno aveva osato tanto: recuperare delle vecchie
vigne abbandonate e abbarbicate su
declivi dalle pendenze severe ed
elevarle al rango dei migliori cru piemontesi. Fabrizio Iuli lo ha
fatto,con l’estro di chi ha intessuto di sogni
la sua poetica. Tanti i suoi gioielli. Dalla bevibilità e dal carattere della
Barbera si passa all’eleganza del Pinot Nero,al suo charme fruttato e alla sua grandezza raffinata,nonché
corposa e precoce . E se Biodinamica significa tra le
tante cose vivere la propria terra e coglierne le caratteristiche diverse e
uniche,la creazione di un Pinot Nero in purezza in una zona d’Italia così
remota e misconosciuta è stato un capolavoro di attenzione,partecipazione,
interazione con la Natura ed il “genius
loci” di cui va riconosciuto il merito solo ed esclusivo al vigneron. Grande
Fabrizio e grazie Fabrizio! Hai saputo far cantare la terra con lo spartito del
tuo cuore e della tua mente. Nel contempo,nello splendido scenario di lune e
falò di pavesiana memoria del magico territorio di Dogliani, affini idealità
hanno portato l’azienda San Fereolo a valorizzare la tradizione con il medesimo
approccio di stampo biodinamico attraverso lo sviluppo di produzioni monovarietali
e non da vitigni autoctoni e non : riesling+gewurztraminer, nebbiolo e su tutti
l’ineffabile Dolcetto. Proprio quest’ultimo vinificato in purezza,il San
Fereolo 2006, ha costituito uno dei vertici gustativi della serata e uno dei vini
più emozionanti del lotto. Con questa enologia che non utilizza stabilizzanti
di sorta,che non modifica il valore primigenio dei componenti di origine
fermentativa ai fini di un miglioramento organolettico,che vira decisamente
verso una scelta biodinamica radicale,Nicoletta Bocca ha prodotto le bottiglie
che oggi ci hanno stregato. E questo perché,al di là del riscontro
sensoriale,ha saputo riversare nei suoi vini qualcosa di più e di meglio della
mera trasmissione di una tradizione di valori condivisi:ha saputo arricchirli e
completarli insufflandovi la sua personalità
e permeandoli della sua voglia bifronte,d’avventura e di pace. “Coup de couer”
di assoluto valore resta sempre il Barbaresco di Paolo Veglio. Di lui e delle
sue radici ho potuto osservarne lampi e coglierne significati durante una breve
visita nella sua bellissima Azienda,dominante il nastro lucente e argenteo del
Tanaro. Quel che posso dire è che Paolo Veglio è uno di quei vigneron che ti
conquistano per la sua cristallina empatia e che costituiscono una speranza vivente per
il mondo. Il suo vino non può che mutuarne franchezza,splendore,genuinità. E
senza abbandonare il crinale della verità suggerita dai sensi e confermata
dalle emozioni che dire del “Sol” e del
suo facitore Ezio Cerruti? Mi conquistò a Cerea la sua antica cortesia e la
delicatezza del tocco . Oggi lo riscopro umanamente ancor più complesso e più
completo mi pare anche il suo vino quasi per imitazione e contiguità. Adesso
potrei parlare a proposito di ciascuno dei nettari degustati di vigneti come
giardini e materia prima intonsa e perfetta ,di più o meno lunghe macerazioni
sulle bucce,di fermentazione in acciaio e in legno,di frutti rossi e
bianchi,fiori,pepe e pietra focaia,di freschezza e mineralità,di equilibrio ed
eleganza ma stavolta il naufragar nella piacevolezza mi è dolce ed esaustivo in
una deriva marcata da un senso di indistinzione. Stasera non voglio cedere alla
tentazione del tecnicismo e del colorito iper-descrittivismo. Senza fingermi in
altri pensieri voglio solo godere . Dei vini e della compagnia di uomini e
donne fuori dal comune,che sanno essere pietre ancora più preziose dei frutti
della vite che tracimano copiosi dalle loro
mani. Dell’abbraccio
caldo,consistente,equilibrato,integro del più sublime dei liquidi odorosi. Ad
altri cronisti più valenti lascio quel
che troppo spesso risulta essere uno stucchevole snocciolamento delle
caratteristiche organolettiche dei campioni bevuti,a volte freddo,a tratti magniloquente
in funzione della misura dell’Ego del narrante. Mi riservo,invece e tutto, il
privilegio di annunciarvi l’estasi testè provata: il miracolo del vino come
dispensatore del sommo piacere ed elemento corale e gregario insuperato ed
insuperabile,si è ancora una volta compiuto.
Rosario Tiso
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