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mercoledì 13 maggio 2015

Graticciaia 1994-1995-1996



Sono particolarmente grato, più che all'esperienza confirmatoria di un vino riconoscibile ed appagante, a quelle sensazioni che solleticano parti emozionali nuove o ne riaprono alcune da tempo ormai sbarrate. Tutto fremente intorno alla nuova o rara vibrazione, rinuncerei a schiere di bottiglie titolate per una sola novità organolettica. Parlo ovviamente di alta qualità, non di un "nuovo" qualsiasi. Di "nuances" che si asserpano e si aggregano, per affinità elettive, al nucleo di sentori gusto-olfattivi pregiati e qualificanti già posseduti dalla memoria sensoriale.A volte occorre un approccio graduale e ragionato. Con Gravner in tanti hanno abbandonato la partita. Troppo lontano dall'ortodossia quel gusto terroso ed arcano. In casi del genere invece di respingere occorre accogliere. E se le corde emozionali restano mute dopo svariati tentativi, ma dopo le molteplici occasioni che l'onestà intellettuale impone, è giusto abbandonare la partita. Perchè, più che per capire, si beve per godere.
Il degustatore professionista non presto è capace di decodificare una sensazione. Da una generica florealità estrae il biancospino, da una diffusa fruttuosità la pesca gialla o la mela renetta. Ampi settori del cervello sono dormienti. E la parte interessata all'analisi organolettica di un vino è particolarmente vasta e complessa. Perchè decidere di utilizzarne solo un frammento e giusto "quel" frammento atto ad unirci al coro della critica enologica trionfante? I guru del settore hanno deciso quali sono le macro-sensazioni da ricercare in un vino e soprattutto il loro valore qualitativo. E tutto il mondo si è accodato e si esercita per dargli ragione. Perchè fa piacere sentirsi quelli che fanno la cosa opportuna. Ignorando che forse, nello sconfinato e controverso universo enoico, sono poche le cose più giuste di altre e c'è posto per tutti. Se si è spiriti liberi, che antepongono il piacere a qualsivoglia astrusità intellettuale, non si dà il punteggio di 100/100 ad un vino che sarà perfetto chissà quando. Gli si assegna il punteggio che può meritare al momento. Non si staccano cambiali del piacere senza curarsi della loro complessa esigibilità. Tempo fa mi capitò la beva dei Graticciaia 1994 e 1995. Fu un’occasione talmente straordinaria da non sapere, in sede di racconto e pubblicazione sul solito network, come qualificarla adeguatamente. Ci fu assoluta unanimità. Tutti rimasero estasiati dalla prestanza dei campioni. Poi la stessa coppia di bottiglie(in mini-verticale con il 1996),bevuta in un contesto dove dominava la pulsione verso l'eno-archeologia, è stata liquidata a distanza di pochi mesi in maniera diversa. Il 1995 è stato considerato da tutti straordinario, confermando la precedente degustazione. Il 1994 invece incredibilmente ritenuto sul viale del tramonto. Può capitare, certo. Una bottiglia mal tenuta, un tappo difettoso. Ma le motivazioni qui sono altre: il vino è risultato senescente. Dalle stesse uve, dalle stesse fermentazioni alcolica e malolattica, dallo stesso invecchiamento e affinamento, dallo stesso lotto, dallo stesso cartone, tenute nello stesso luogo, due bottiglie affiancate producono esiti diametralmente opposti: l'una prodigiosa, l'altra claudicante. Quando si vanno a scomodare millesimi remoti accade anche questo: è la "roulette russa" del gusto, sport preferito dagli eno-archeologi. Ancora più sensazione suscita il giudizio sulla terza bottiglia della serie: il Graticciaia 1996. Se è vero che la realtà a volte supera la fantasia ci troviamo di fronte ad un caso paradigmatico: il vino è stato giudicato "acerbo", immaturo. A 15 anni dalla vendemmia. E quando sarà pronto? Fra due anni? O forse cinque? E rieccoci con la solita "roulette"!(lo stesso vino risultò magnificamente performante in quel di “Vigna del Mar” durante un pranzo davvero speciale al cospetto del facitore del Graticciaia, Severino Garofano. I presenti gli tributarono il punteggio di 91/100. Era il 26 Gennaio del 2008). Potrebbe essere un vino non ancora in perfetto equilibrio fra le sue componenti. Oppure potrebbe trattarsi della tendenza a limitare i propri orizzonti sensoriali al disegno organolettico che descrive un vino di qualità come massimamente evoluto, ai prodromi della vecchiaia, senza considerare altre possibili rappresentazioni. Dimenticando che non è il "goudron" a fare grande o pronto un vino, nè un non meglio identificato portato terziario. E neppure mineralità e idrocarburi o, come dicono enfaticamente i francesi per certi pinot neri, la "merde de poule". Ma un equilibrio massimamente piacevole. Che non è un'esilissima spira di profumo, che non è magrezza felpata, associabili forse ad uno spesso frainteso ideale di eleganza e raffinatezza, ma perfetto bilanciamento fra polpute morbidezze e fiere durezze del vino. Che può anche copiosamente profumare. Che può anche volumetricamente riempire. Tutte qualità senza apprezzabili controindicazioni. Se non quella di una personale idiosincrasia.
Rosario Tiso


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