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sabato 23 maggio 2015

Quanto aspettare una bottiglia di “La Tache” 2009?



Da giovanissimo conoscevo del vino soltanto oscure dicerie. Il sapere accademico le alimentava e sosteneva, producendo nel tempo una sequela ininterrotta di “profeti” preoccupati quasi esclusivamente di rimpolpare e predicare il pensiero unico, una sorta di religione del vino. La leggenda più arcana,il mito supremo da ossequiare è sempre stato quello relativo all’attitudine del vino a migliorare invecchiando. Sull’argomento ho sentito e letto l’impossibile. Cose strabilianti che si fanno un baffo delle leggi della chimica e della fisica e, quel che è ancora più stupefacente,della stessa natura. Non si contano,ad esempio,i palati valenti o sedicenti tali che hanno trovato eccezionali campioni dall’esistenza pluridecennale fino a lambire e a volte superare il secolo.  Per questo da sempre ogni appassionato ha dovuto vestire il saio dell’umiltà e della fede per accostarsi all’universo delle vetustà enologiche. L’ho fatto anch’io. E mi sono fatte alcune idee sul fenomeno. Innanzitutto non si tengono nel dovuto conto due postulati che sottendono all’apertura,a volte sofferta e rischiosa,di una chicca enologica “d’antan”. Il vino è un prodotto che ha una vita e come tutte le realtà vive è destinato a marcire,previo un più o meno lungo decadimento. Poi è assolutamente riconosciuto che non tutti i vini invecchiano allo stesso modo e non tutti(direi pochissimi)meritano di farlo. La mia esperienza trentennale di assaggi conferma questi assiomi. Se lungamente attese, otto bottiglie su dieci risultano appena potabili o nel migliore dei casi  reggono dignitosamente un impianto organolettico piacevole. Ma “reggere” nel tempo sarebbe una qualità fine a se stessa se non ci fosse il guadagno di  un plus-valore sensoriale. Le troppe variabili,le troppe aspettative associate allo stappo di un presunto gioiello vinicolo, finiscono per sfiancare ogni gradevolezza. Ma si sa, le religioni non si discutono. Hanno papi,cardinali e vescovi,oltre ad una genìa pretesca e pretenziosa,pronti all’unisono a difendere il “verbo”. I miti non si toccano, piuttosto si ingenera negli astanti un senso di inadeguatezza e si suggerisce più o meno subliminalmente di modificare i propri target organolettici per allinearli al pensiero dominante. Si definisce quello che è buono e quello che non lo è. Le facoltà gustative dei più e soprattutto quelle dei degustatori che contano, i guru della critica enologica mondiale, sembrano tutte sbilanciate verso l’ossido,il rancido,l’aspro,il marcescente. Le note dolci e suadenti sembrano ai più valenti di loro rappresentare uno stadio infantile del gusto. Così accade che tante “puzzette” vengano assimilate ai profumi piacevoli in nome del dio “complessità”, tanti spigoli e asperità  associate  alla deità del dinamismo e della verticalità. E mentre sull’altare dell’intensità si dispiegano  astringenza e torbidità,si spera di centrare miracolosamente una qualsivoglia,chimerica armonia. Spesso la bocca affascina e ammalia più per l’idea di quello che il vino avrebbe potuto essere che per l’effettiva qualità. Non ci si meravigli pertanto di leggere che nei grandi vini degli anni ’70 c’è chi sente ancora del frutto freschissimo. Nessuno si sogna di dire che è una evidente corbelleria. E che un grandissimo vino in uscita andrebbe aspettato 25-30 anni. Chi offre di più? A questo punto io ipotizzerei di arrivare a 40 o di lambire il mezzo secolo. Non costa nulla spararla grossa. Anzi. Si passa per essere uno ancora più bravo,ancora più competente,ancora più visionario. Qualche grandissimo vino l’ho bevuto anch’io. E, udite udite, ho fatto qualche scoperta. Tutti gli appassionati sanno quanto bello,buono e carezzevole ai sensi sia il vino dei sogni, del vagheggiamento estatico, dei desideri. Ma con l’approssimarsi della realtà,del momento concreto e fatidico della beva,bisogna pur lasciar parlare il vino,senza incappare nella fittissima rete dei nostri preconcetti,dei nostri pregiudizi. Il vino,come la musica,deve imporsi da sé. Senza ricorrere a sofismi.  Alla fine ho capito che un vino memorabile dimostra un’immediata bevibilità,è seducente anche e nonostante la sua estrema giovinezza,pullula di presagi di eleganza e raffinatezza e soprattutto può sciorinare da subito un superbo equilibrio. Altro che tannini da smussare,alcoli da integrare nella trama “et similia”  . Certe problematiche evidenziano limiti congeniti e difficilmente mondabili del campione degustato. Nella mitologia dell’attesa si favoleggia addirittura di equilibri persi,guadagnati e poi ripersi e riguadagnati nelle varie fasi evolutive del vino. Un assurdo rompicapo che rende la scelta del momento adatto allo stappo un autentico terno al lotto. Le fantasmagorie dei vecchi millesimi sono fantasie di certi ricchi,inclusi gli arroganti-supponenti-pieni di sé  (Ah, l’equilibrio dello Cheval Blanc del 1936! Oh,la potenza dello Chateau Latour del 1945!Uhm,l’appagante e sontuosa bevibilità dello Chateau d’Yquem del 1911!). E certi ricchi,si sa ,spesso pagano su altri piani le loro fortune di carattere economico e professionale . Sono ristretta e poco qualificata cerchia per rappresentare un universo che li ha preceduti e li sopravviverà. Solo ai “poveri” in spirito è concessa la comprensione vera della realtà. Anche in campo vinicolo.
Rosario Tiso

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