Il 70% delle tasse statali arriva da lavoro dipendente e consumi, mettendo in crisi il principio costituzionale di progressività. E la delega fiscale che dà mandato al Governo di intervenire in materia per realizzare "un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita" -scaduta a fine marzo, e prorogata fino al 26 giugno 2015- non pare affrontare il tema
Nel 2014 ho maturato 101 euro di interessi sul mio libretto di risparmio presso la cooperativa Chico Mendes, quella che promuove il commercio equo e solidale a Milano. Di questi, 26,38 se li è presi lo Stato, sotto forma di “ritenuta fiscale”. Ho pagato un’aliquota del 26 per cento, per effetto di una norma in vigore dal 1° luglio 2014, che si applica in modo indistinto agli interessi maturati sul risparmio, senza considerare in alcun modo la natura del soggetto che l’ha raccolto. La finalità “solidale” dei libretti accesi presso la Chico Mendes, le cui risorse contribuiscono a prefinanziare i produttori del commercio equo, non merita -secondo il governo- alcune detrazione, riduzione o esenzione dalla “ritenuta”. Nemmeno se -come in questo caso- gli interessi restano sempre sul libretto. Si possono fare due conti, così: se avessi pagato una ritenuta calcolata sull’aliquota dello scorso anno, che era fissata al 20%, essa sarebbe stata di poco superiore ai 20 euro; ciò significa che lo Stato ha dragato sei euro che avrebbero potuto restare depositati in cooperativa. Dato che lo stesso è successo a ognuno degli altri 438 soci risparmiatori della cooperativa Chico Mendes, il “regalino del governo”, come definisce Luca Munari, dell’Ufficio soci, l’innalzamento della ritenuta dal 20 al 26%, è costato quasi 3.900 euro. Se invece ci fosse una esenzione totale, la cooperativa avrebbe a disposizione -ogni anno- quasi 17mila euro in più.
Secondo la relazione tecnica del governo, allegata alla norma dell’aprile scorso che ha modificato l’aliquota della ritenuta fiscale, questa “manovra” comporterà complessivamente un aumento di gettito stimato di 755 milioni di euro. Presi a una platea indistinta di cittadini italiani, perché -come spiega Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea e di Geografia politica ed economica della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa-, il “sistema fiscale si costruisce sempre sui grandi numeri, su una miriade di contribuenti che si ha la certezza di poter colpire”. Così, il governo Renzi, che “pure evita di affrontare il tema di ‘una patrimoniale’, cioè di una tassazione dei patrimoni, l’ha confezionata nella pratica, non tenendo conto in maniera specifica delle singolarità dei soggetti, e usando le aliquote per appesantire il peso del prelievo fiscale” afferma Volpi.
Ciò che manca, suggerisce il docente dell’Università di Pisa che al tema di un fisco più equo ha dedicato già nel novembre 2011 il saggio pubblicato da Altreconomia edizioni “Sommersi dal debito”, è l’idea di una vera riforma fiscale.
Che dovrebbe partire da un dato di fatto, rappresentato nella prima tabella: quasi il 70% delle entrate tributarie incassate nel nostro Paese (pari a circa 340 miliardi di euro nei primi undici mesi del 2014) arrivano dall’IRPEF e dall’IVA, colpendo lavoro dipendente e consumi. Ciò rende quanto meno necessario affrontare il “nodo” dell’articolo 53 della Costituzione, secondo il quale “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Secondo Volpi, questo principio di progressività s’è perso, anche perché ormai il carico fiscale complessivo è la somma di una serie di prelievi disomogenei, disorganici e caotici (perché cambiano ogni anno)”.
Il 26 marzo 2015 scade, formalmente, la “delega fiscale”, cioè il provvedimento con cui il governo Renzi si era preso un anno di tempo per approvare norme e decreti per favorire “un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”. Al 16 febbraio, risultano approvati solo 3 decreti legislativi sui 22 necessari -
www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/14023ld.htm- e l’esecutivo pare orientato a chiedere di prorogare di 6 mesi la “data di scadenza” del provvedimento. Ma anche se con uno sprint Matteo Renzi arrivasse ad approvare tutti i decreti attuativi, secondo Volpi il contenuto sarebbe lo stesso insufficiente, perché i temi toccati sono tutti “periferici” se uno guarda all’esigenza di modificare l’impianto del sistema fiscale italiano.
Pensate, ad esempio, al dibattito sorto intorno alla possibilità di introdurre una soglia (accettabile?, fisiologica?) del 3% di evasione sull’imponibile. “Insistere su singole questioni specifiche, permette di non affrontare i grandi temi”, quelli su cui -secondo Volpi- varrebbe davvero la pena intervenire. Sarebbe fondamentale, ad esempio, ripartire dalla struttura portante del sistema fiscale italiano, che oggi si articola su almeno tre livelli, costituiti dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali, e da troppo tempo è preda di normative spesso schizofreniche, “dettate da singole contingenze, la prima delle quali è quella di inseguire gli equilibri dei bilanci pubblici e di contribuire al famigerato rapporto tra deficit e prodotto interno lordo” spiega Volpi.
In particolare, secondo il docente dell’Università di Pisa, che è dal 2013 anche sindaco del Comune di Massa, dopo aver ricoperto per cinque anni l’incarico di assessore al Bilancio dello stesso ente, “non sembra esistere più alcuna relazione tra i tre livelli di governo, e pare perduta in molti casi la certezza del diritto sia per il contribuente ma, paradossalmente in virtù del sovrapporsi disorganico di normative, anche dell’ente titolare del tributo. In quest’ottica, il primo elemento di incertezza è costituito proprio dall’entità complessiva del carico fiscale, che finisce per articolarsi in più voci di complessa lettura, destinate quasi inevitabilmente ad appesantire il prelievo”.
Ad attingere ai nostri redditi, ad esempio, sono più soggetti: c’è lo Stato con l’IRPEF, e poi ci sono le addizionali, con differenti aliquote territoriali. Addizionali che rappresentano, inoltre, due delle quattro entrate tributarie ancora in capo agli enti territoriali, con l’IRAP e l’IMU (l’Imposta municipale unica che dovrebbe essere sostituita a breve da un’ancora indefinita local tax).
A proposito di IMU, la stessa mancanza di omogeneità che si può riscontrare nella tassazione sui redditi riguarda anche gli immobili, dove -spiega Volpi- “tutti i fabbricati produttivi, quelli classificati come ‘B’, non sono di competenza degli enti locali, che invece prendono il resto del prelievo sugli immobili”.
Secondo Volpi, sarebbe fondamentale una “definizione chiara ed organica dei ‘titolari’ dei diversi prelievi, perché solo questo consentirebbe una importante semplificazione: è difficilmente comprensibile un sistema in cui le imposte sul reddito e quelle sugli immobili sono distribuite in capo a più amministrazioni pubbliche, generando forti disomogeneità fra i diversi territori e impedendo, di fatto, a ciascuna amministrazione una vera autonomia finanziaria”.
A proposito di immobili, uno degli articoli della delega fiscale è relativo alla riforma del catasto. Il decreto legislativo che ne definisce i contorni dovrebbe essere stato approvato entro fine febbraio, e prevede che nei prossimi cinque anni venga ricalcolato il valore di ogni immobile, che verrà classificato non più sulla base del “numero dei vani” ma dei “metri quadrati” di superficie, tenendo conto della collocazione e delle caratteristiche edilizie.
Un processo che dovrebbe riconoscere quei confini marcati che esistono tra il valore di un’immobile costruito in centro e in periferia.
Abbiamo chiesto ad Alessandro Santoro, professore di Scienza delle Finanza all’Università di Milano Bicocca e consigliere economico (a titolo gratuito) del premier Matteo Renzi, se la riforma del catasto è in qualche modo legata -nelle intenzioni del governo- a una revisione delle modalità di riscossione delle imposte locali sulle proprietà immobiliari, e se pensa che possa contribuire a realizzare politiche re-distributive. “Personalmente -ha spiegato Santoro- credo che sui due piani si debba procedere in parallelo. L’allineamento delle rendite ai valori di mercato apre notevoli spazi di manovra, sia nel senso di aumentare l’equità del prelievo sia nel senso di fornire gettito aggiuntivo per finanziare la riduzione della tassazione del lavoro. Queste possibilità potranno essere implementate con il varo definitivo della local tax”.
A dimostrare l’assenza di un disegno omogeneo di riforma fiscale, intanto, la legge di Stabilità 2015 è intervenuta su uno dei centri nevralgici del sistema tributario italiano, cioè l’IVA, introducendo dei meccanismi (tecnicamente definite reverse charge e split payment per le forniture alla pubblica amministrazione e ravvedimento operoso rafforzato) che -spiega Santoro- prevedono di recuperare 3 miliardi di euro all’anno. L’Agenzia delle Entrate ha recentemente diffuso analisi secondo cui la base imponibile IVA “evasa” tra il 2007 e il 2010 è stato di 231 miliardi di euro. L’intervento sull’IVA, per il momento, non andrà a favorire una riduzione del carico fiscale sui cittadini, e in particolare sui lavoratori dipendenti: “Non credo che possano esistere degli automatismi -ha risposto Santoro-: la volontà politica è di andare in quella direzione, ma bisognerà attendere i risultati definitivi e l’evoluzione del quadro della finanza pubblica”.
Intanto, secondo le più recenti statistiche dell’Istat sulla “distribuzione del carico fiscale e contributivo tra i lavoratori e le famiglie”, diffuse il 9 febbraio 2015 e relative ai redditi 2012, la retribuzione netta di un dipendente è pari al 53,3% del suo “costo”. Il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo” è pari, in media, al 46,7%, suddivisi tra contributi sociali dei datori di lavoro, pari al 25,6%, e imposte e contributi diretti a carico dei lavoratori, pari al 21,1% (nel 2009, il “cuneo fiscale” era del 46,1%). I più pagano, insomma. E intanto, in assenza di un intervento adeguato sul sistema fiscale italiano, secondo Alessandro Volpi, viene meno anche “la possibilità di dare corpo a una efficace azione di perequazione, capace di ridurre almeno in parte le distanze fra aree povere e aree ricche del Paese, all’interno di un patto di solidarietà nazionale. Una simile condizione non è raggiungibile con la costituzione di più o meno credibili ‘fondi di solidarietà comunale’ da inserire nei bilanci degli enti locali o da altri meccanismi analoghi. Per la ripresa del Paese è assolutamente indispensabile che il fisco torni ad essere un motore di democrazia e di distribuzione della ricchezza perché il pericolo connesso con la episodicità e con la disorganicità dei provvedimenti è quello di accentuare ulteriormente la già troppo forte polarizzazione dei redditi e dei patrimoni italiani”.
A proposito di patrimoni e di ricchezze cumulate facendo trading finanziario, proviamo a suggerire al governo l’approvazione di un provvedimento (pur) “episodico”: è la tassa sulle transazioni finanziarie. Assumendo un’imposta dello 0,1%, su ogni compravendita di strumenti finanziari, le stime della campagna ZeroZeroCinque -basate su dati della Commissione europea e del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung- attestano per l’Italia entrate fra i 5 e i 6 miliardi di euro all’anno. Pari a quanto incassato nei primi 11 mesi del 2014 da lotto e lotterie, una tassa indiretta sui sogni di ricchezza di milioni di italiani poveri. ---