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sabato 19 gennaio 2019

B&B Bergoglio e Belzebù


FRANCO ORIGLIA VIA GETTY IMAGES

Oggi ricorrono i cento anni della nascita di Giulio Andreotti. ll 6 maggio 2013 quando egli muore non erano passati due mesi dall'elezione a Pontefice dell'argentino Bergoglio, il 13 marzo precedente. Un mondo si chiude, un mondo si apre. Nella Chiesa, in Italia, e nelle finanze d'Oltretevere.
Ma sono due mondi più uniti di quanto si possa immaginare, un legame di anni, immortalato da qualche rara foto che la famiglia dello statista dc e il Pio Sodalizio dei Piceni, mostreranno al pubblico in una mostra che si apre in questi giorni. Una di esse è stata pubblicata sul Corriere della Sera il giorno dopo la morte del senatore a vita.

Andreotti- Bergoglio, dunque, sia pure Bergoglio ancora solo cardinale. Andreotti, come affermò Francesco Cossiga :"Per anni ha vissuto come fosse un segretario di Stato Vaticano permanente" di sette Papi ed un quasi Papa, Bergoglio appunto. Da Benedetto XV a Benedetto XVI. Raccontati da lui stesso in un suo celebre libro intitolato "A ogni morte di Papa". "Quando nacqui – scrisse Andreotti – era Pontefice Benedetto XV, ma io non ebbi modo di accorgermene. Giacomo della Chiesa morì quando io avevo raggiunto da otto giorni i ventiquattro mesi e non potevo occuparmi di cose vaticane".
Ecco, tranne quando era in fasce, Andreotti passò infatti l'intera vita ad occuparsene.
L'amicizia di Andreotti con Bergoglio fu "filtrata" dall'ex responsabile di Comunione e Liberazione a Roma, don Giacomo Tantardini, che proprio nel vescovo di Buenos Aires aveva indicato una speranza della Chiesa. Anche lui attaccatissimo al brano evangelico della chiamata di San Matteo, a quel "miserando atque diligendo " che Francesco ha messo nel suo stemma papale.
Andreotti a partire dal 1993, per quasi dieci anni, diresse "30Giorni", il mensile che Tantardini ispirava, sul quale Bergoglio è stato più volte intervistato e sul cui ultimo numero (maggio 2012) il cardinale argentino scrisse un ricordo di don Giacomo, morto il mese prima.
Nella fucina giornalistica del mensile "30 giorni" ( finiti per motivi di sostegno economico, sotto l'egida andreottiana), si è formato, tra gli altri, Andrea Tornielli , il nuovo direttore editoriale della Segreteria della Comunicazione vaticana, in forza alla redazione del mensile dal 1992 al 1996.
Anche Theodore McCarrick (ex cardinale di Washington, destituito da Francesco dopo l'esplosione dello scandalo dei suoi abusi sessuali nel luglio 2018) concesse molte interviste nell'arco degli anni, a "Trenta Giorni" diretta dall'ex ministro degli Esteri, sui temi più importanti dell'attualità internazionale. Anzi, si diceva, che ogni volta che veniva a Roma, si sentiva con Andreotti.
Le interviste riguardavano in particolare i rapporti della Chiesa con l'Iran e con la Cina, al ritorno dai suoi frequenti viaggi a Pechino, tornati d'attualità dopo le denunce di quest'estate dell' ex Nunzio Carlo Maria Viganò, e dopo la firma di un'accordo provvisorio con il Vaticano, per la nomina dei vescovi, nel settembre 2018.
Ma McCarrick su "Trenta Giorni" interveniva , con impronta liberal, anche su temi etici, quali la comunione ai politici americani che sostenevano l'aborto, (come John Kerry che poi divenne Segretario di Stato americano dal 2013 al 2017 durante l'amministrazione Obama).
Andreotti amico di papi e futuri Papi, fu anche "dominus" per decenni dei destini degli uomini delle finanze vaticane.
L'ex Presidente del Consiglio - ce lo documenta un recente libro Chiarelettere scritto da Fabio Marchese Ragona, che attinge anche al Fondo vaticano dell'Archivio del Divo Giulio - era legato a doppio filo all'allora presidente dello IOR,(la cosiddetta banca vaticana) Paul Casimirus Marcinkus, il prelato che fece affari con Sindona prima e con l'Ambrosiano di Roberto Calvi, poi.
Ecco allora saltare fuori dall'archivio, una cartolina natalizia del 1990, spedita "all'on.Prof." (Giulio Andreotti) ,da una piaggia della Florida, con tanto di palma, sole e spiagge, autografata con "Cari saluti" dall'arcivescovo che amava i sigari cubani, in cui l'ormai ex presidente dello IOR, sosteneva: "Ho passato qui il problema di Panama". Che voleva dire? Dopo tanti anni, dopo la sua sostituzione al vertice della banca, perché Marcinkus ripropone la questione delle società offshore? E perché ad Andreotti?
Era stato proprio Andreotti - si legge in filigrana negli stessi documenti del Fondo vaticano dell'Archivio di Andreotti - a "salvare " dall'arresto per il crack Ambrosiano, Marcinkus che descrive se stesso in un biglietto al Divo Giulio "reduce come San Giuseppe da una fuga in Egitto", cioè oltre le Mura vaticane, per scampare al mandato di cattura della Procura di Milano.
Andreotti e Marcinkus si parlavano poco ma si vedevano molto. E soprattutto a far da tramite c'era monsignor Donato De Bonus, "fedelissimo di Marcinkus e legatissimo ad Andreotti".
Ecco, allora, il biglietto di ringraziamento la croce pettorale regalata da Andreotti a De Bonis, per la consacrazione episcopale, nel momento in cui anche lui dovette lasciare lo IOR. Ed ecco, De Bonis che ringrazia pubblicamente al termine della cerimonia episcopale lo stesso Andreotti indicato come il "salvatore" del Vaticano, forse facendo riferimento al pagamento dei 250 milioni di dollari per la transazione con i creditori esteri dell'Ambrosiano, per la cui bancarotta sono stati condannati i vertici della P2. De Bonis ( testimone del passaggio allo IOR di miliardi delle vecchie lire intestati a fondazioni più o meno fittizie, alcune in rapporti con Andreotti) , è morto nel 2001.
Marcinkus morì povero nel 2006, in Arizona dove aveva finito la sua carriera a fare il parrocco. Il Vaticano e il Papa San Giovanni Paolo II non credettero mai alla sua personale colpevolezza. La stessa cosa accadde con Andreotti, benedetto pubblicamente da Giovanni Paolo II, nel bel mezzo dei processi per mafia.
La dichiarazione rilasciata da Andreotti al momento della morte di Marcinkus fu tagliente e ingenerosa: "Il Vaticano commise a suo tempo un errore, quello di affidare a monsignor Marcinkus un'organizzazione bancaria. Non aveva alcuna preparazione in merito. Affidargli la presidenza dello IOR fu un grave errore. Credo che non lasci una lira, non si è arricchito".
Belzebù (soprannome affibbiato al Divo Giulio - da Bettino Craxi che non lo amava - ma che come ha testimoniato suo figlio la settimana scorsa non lo affliggeva più di tanto), come è noto, misconosce le anime perdute che gli sono state enormemente utili.
Sappiamo solo oggi però che Marcinkus aveva negli Stati Uniti un amico importante, proprio nel futuro cardinale McCarrick che nel 1988 aveva creato la Papal Foundation per bypassare ,nel sostegno alla Santa Sede, lo IOR travolto dallo scandalo Ambrosiano: uno IOR, ormai prossimo a passare nelle mani della finanza "bianca" lombarda con la nomina a presidente di Angelo Caloja) (https://www.huffingtonpost.it/2019/01/04/il-papa-ai-vescovi-usa-tra-pedofilia-e-denaro-il-caso-mccarrick-accusato-di-abusi-e-cardinale-delle-cayman_a_23633300/).
C'è chi scommette che sia quello il filo rosso dentro le finanze vaticane sopravvissuto anche ai tentativi di riforma di Bergoglio.
Maria Antonietta Calabrò

Andreotti democristiano avanti Cristo

Oggi Giulio Andreotti avrebbe compiuto cent’anni, ma lui fu democristiano avanti Cristo. Aveva quattro giorni quando nacque il Partito Popolare che era il nome da signorina della Democrazia Cristiana. Ma non è escluso che quel 18 gennaio del 1919, alla destra del padre, don Luigi Sturzo, ci fosse già il piccolo Giulio con la gobbina e il doppiopetto in fasce, a suggerire cosa fare e soprattutto come. De Gasperi fu statista prima di essere democristiano, e austriaco prima di essere italiano, Moro o Fanfani furono professori, teorici catto-fascisti prima di diventare democristiani. Andreotti no, fu la Dc. Andreotti non fu mai Presidente della Repubblica né Segretario della Dc, non fu mai Presidente del Senato o della Camera, non fu mai Sindaco o Vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l’anima, la ragnatela e l’icona della Repubblica italiana, della Dc, dei governi, della Curia, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa, come diceva il cardinal Ottaviani.
Andreotti fece la comunione senza mai passare per la confessione. Ebbe sette vite, come i gatti e i sette colli di Roma, e guidò sette governi brevi; rappresentò l’immortalità al potere, inquietante ma rassicurante. Disse che il potere logora chi non ce l’ha e fu di parola. Quando non ebbe più potere, si logorò, volse la gobba a levante e si costituì dopo lunga contumacia al Titolare. Non fu statista ma statico, inamovibile. Andreotti ebbe più senso del potere che dello Stato, della curia più che della nazione, della sacrestia più che del pulpito. Fu minimalista, antieroico e antidecisionista, rappresentò l’italianissima trinità Dio, pasta e famiglia, sostituendo la patria con la pajata e sognando un dio che patteggia col diavolo. Il suo ideologo fu Alberto Sordi, il precursore Aldo Fabrizi. Guidò l’Italia con passo felpato nelle vacanze dalla storia. Fu vicino ai suoi elettori, attento alle loro richieste, alle cresime e alle nozze. E’ mitico l’armadio nel suo studio di piazza san Lorenzo in Lucina, gestito dalla segretaria Enea, coi vassoi d’argento da mandare ai matrimoni, pare divisi in tre fasce.
Per secoli fu ritenuto l’Incarnazione del Male, la Medusa che pietrifica e a volte cementifica. Ai tempi di Mani pulite, nella sua Ciociaria, il fascista galantuomo Romano Misserville organizzò un processo-spettacolo ad Andreotti; calò il gelo nei suoi confronti di tanti suoi galoppini del passato che pure gli dovevano molto.
Andreotti non lasciò riforme dello Stato e grandi opere, ma un metodo, uno stile, un modo di vedere, intravisto dalle fessure dei suoi occhi, anche per non lasciare prove compromettenti sulla retina. Primato assoluto della sopravvivenza, personale e popolare, alle intemperie della storia. Fu moderato fino all’estremo e devoto ma remoto da paradisi e santità. In politica estera fece arabeschi, fu filo-mediterraneo, non filo-atlantico e filo-israeliano, come del resto anche Moro e Craxi.
Accusato d’essere il Capo della Cupola non fu poi condannato perché l’accusa inverosimile rimosse anche ogni colpa verosimile. Volevano infliggergli l’ergastolo ma alla fine fu lui a infliggere l’ergastolo all’Italia, diventando senatore a vita. Ma tra tanti imbucati, lui meritava il laticlavio.
Sopravvisse alla Dc e ai suoi capi storici, ai suoi stessi bracci destri (aveva infatti molte chele), sopravvisse ai suoi nemici e perfino a Oreste Lionello che fece di lui una caricatura complice. Arguto quand’era in vena, come si usa dire degli spiritosi e dei vampiri (e lui fu ambedue), Andreotti non fu solo l’anima della Dc e della Prima repubblica ma anche il top model dello Stivale. Somatizzò l’Italia. Le mani giunte e intrecciate per l’indole cattolica, il corpo rispecchiava un paese invertebrato, disossato e militesente, esonerato dalla ginnastica e incapace di mostrare muscoli (neanche nel sorriso Andreotti ha mai mostrato i denti, ma solo un fil di labbra; a tavola beveva brodini per non addentare). Tutti lo immaginavano bassino, ma lo era per tattica e umiltà; in realtà era alto, e sarebbe stato più alto se avessero srotolato il nastro della sua curva pericolosa. L’assenza del collo fugava ogni indizio di mobilità e superbia, la voce sibilante e romanesca, confidenziale e domestica era emessa da una fessura; sussurrava come dietro le grate di un confessionale. E le spalle curve per custodire la sua compromettente scatola nera nella gobba (lo scrissi nel ’93 e fu poi ripreso da tanti, tra cui Beppe Grillo). Figurò l’italiano-tipo piegato su se stesso a tutelare il suo particulare. Il suo volto di sfinge, l’assenza di colorito, impenetrabile al sole per non modificare la cera, la testa piantata direttamente sulle spalle come l’aracnide cefalotoracica e le orecchie estroverse per captare ogni minimo fruscìo; gli occhi pechinesi, salvo illusioni ottiche che a volte li ingrandivano, grazie alle lenti bifocali; il passo circospetto e l’obliqua figura, il fideismo ironico e la ferocia minuziosa, la devozione curiale e la visione nichilista sulle sorti dell’umanità.
Non fu arcitaliano ma casto e asessuato, non rappresentò l’indole pomiciona e fanfarona degli italiani. Ma la sua figura, metà bigotta e metà malandrina, ironica e pregante, rappresentava l’ambiguità d’un paese devoto e peccatore, che adora Gesù ma tresca con Belzebù. Brillante nelle conversazioni, reticente nei diari; sapeva fior di retroscena, ma preferì l’omertà. Nei libri raccontava come non erano andati i fatti. Visse a lungo per godersi pure la nostalgia di quando c’era lui al potere. Andreotti restò un punto interrogativo, come la sua sagoma curva. Non fece la storia ma la consuetudine; nutrì l’aneddotica, il thriller e la leggenda. Come sua madre, cucì all’Italia un abito su misura per i suoi difetti.
MV, La Verità 13 gennaio 2019
https://apostatisidiventa.blogspot.com/2019/01/b.html

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