I
desideri, astratte entità che galleggiano nel mare dell’inconscio
fra le sponde contrapposte di realtà e vagheggiamento, dopo averli
fortemente voluti a volte si realizzano. Il sogno di un’ideale
“overture” veneziana, cullato da tempo immemorabile, ha richiesto
una lunga e laboriosa gestazione: quali scegliere, date infinite
possibilità, fra i simboli e i luoghi che più di ogni altro
esprimono la quintessenza della venezianità per costruire, come
nella musica, un “incipit” adeguato e organico alla sinfonia di
esperienze che da secoli suole chiamarsi Venezia?
Poi,
come pilotato da uno spirito guida, il sogno si è avverato nel dono
divino di una giornata indimenticabile intessuta di perfetta
“poetica” veneziana.
Mi
sono alzato presto al mattino passando per una piazza S. Marco se
possibile ancora più suggestiva nell’incanto dell’ora deserta.
Lungamente ne ho assaporato l’atmosfera illibata e intonsa prima di
vedere dileguare il fascino più vero come ombra in fuga al sole
della canèa di gente che montava. L’incanto si è fatto attesa.
Dopo le 10.30, tassativo e storico orario d’apertura, mi son
concesso una preziosa sosta all’Harry’s Bar. Non avevo mai
trovato il coraggio di prendere un caffè in calle Vallaresso.
Adesso, seduto al tavolo, con tazza e zuccheriera di pregio disposte
davanti a me, con un bicchiere d’acqua con ghiaccio che non è
scontato ricevere a Venezia d’accompagnamento al caffè, con
l’atmosfera senza tempo di un locale fra i più “sostanzialmente”
fascinosi del mondo, per una modica cifra ci si può sentire emuli di
Hemingway per cinque minuti. Attenzione però all’abbigliamento. Al
mattino hanno accettato i miei shorts (forse per distrazione o
gentile concessione). Di primo pomeriggio ho subito l’onta di un
cortese respingimento: è richiesto sempre e comunque il pantalone
lungo.
Dopo
un tuffo nei richiami letterari lagunari ho imboccato, oltrepassato
campo S. Moisè, una delle “calli” più opulente della città:
Calle Larga XXII Marzo. All’altezza di Calle delle Veste si gira
quasi per istinto verso campo S.Fantin, dominato dalla magnifica
architettura del Teatro “La Fenice”. Visitarlo è stata
un’esperienza entusiasmante.
E’
una bomboniera tutta d’oro, ricca di una storia che il fuoco non ha
cancellato, risorta più volte a mostrare il miracolo della sua
armonica bellezza, della levità delle decorazioni murali,
dell’intarsio mirabile degli stucchi, dell’eleganza delle
rifiniture e lo splendore dei colori. Ogni particolare trasuda
raffinatezza.
Il
meglio del gusto veneziano stratificato nei secoli reso calda alcova
per ospitare le eccellenze della musica, della lirica e del balletto.
Un autentico “sancta sanctorum” dell’arte.
Nell’ampio
e centrale Palco Reale, tutto luccicante di fregi e tessuti preziosi,
un gioco di specchi crea una prospettiva dalla profondità infinita.
Una magìa semplice ed efficace.
La
vista che si gode da lassù è mozzafiato.
Finita
la visita, senza permettere che l’incanto declini, occorre recarsi
nel vicino campo S. Maurizio dove c’è il Museo della Musica.
Avvolti
in sonorità vivaldiane, si può ammirare una ricca collezione di
strumenti musicali di ogni epoca.
Lo
spirito ne risulta saziato.
E’
l’ora meridiana: è il momento di prestare ascolto ai morsi della
fame.
L’aperitivo
richiama i “cicheti”, il “bianchetto”, in una parola: il
“bacaro” veneziano.
Uno
dei pochi rimasti autentici si trova oltrepassato il pittoresco ponte
lìgneo dell’Accademia, in Fondamenta Nani: ”Vini al Bottegon”.
Quattro
“cicheti” ed un bicchiere di bianco costano pochi euro. Tutto
gustosissimo ed autentica cordialità.
Il
pranzo richiede preparazioni culinarie più robuste. Nel vicino campo
S. Vio c’è l’osteria “Al Vecio Forner”.
Per
30/40 euro si possono gustare i piatti della tradizione con un menù
completo e un ottimo caffè finale.
Ritorno
poi ad occuparmi dell’anima: nei pressi si trova la “Basilica
della Salute”
Quando
la più feroce pestilenza della storia decimò la popolazione della
Serenissima(caddero vittime del morbo anche il Doge e il Patriarca ),
la città fece voto solenne di edificare una chiesa in onore della
Madonna per assicurarsene la protezione e all’uopo venne traslata
l’icona di Maria dall’isola di Candia (l’attuale Creta).
Oggi
il quadro troneggia in una cappella laterale della Basilica ed è
oggetto di viva devozione. Non si può giungere a Venezia senza
andare in pellegrinaggio alla chiesa più amata dai veneziani.
Fuori
dalla Basilica si delinea il profilo di “Punta della Dogana”. Lì,
dove campeggiava e adesso rimossa uno dei nuovi e fotografatissimi
simboli della città, la scultura del candido fanciullo reggente la
rana dei suoi giochi o delle sue sevizie, ho bevuto all’orizzonte
visivo più celebrato, più spettacolare, più variegato, più ampio
e affascinante di Venezia.
Il
tramonto incombente non poteva che sopraggiungere gravido di
nostalgia. Venezia, luogo che più ricco al mondo di manufatti
artistici non è possibile immaginare, aggiunge preziosità ai suoi
tesori. Gli allestimenti creativi ospitati nel museo “Punta della
Dogana” rappresentano le avanguardie della genialità figurativa
del mondo.
Sede
permanente della collezione di Francois Pinault, il museo ospita il
percorso “Mapping the Studio”.
Dagli
universi privati degli artisti ospitati in esposizione, descritti in
tracce di illuminanti didascalie, si approda alla generalità dei
sentimenti e delle inquietudini dell’uomo contemporaneo con le sue
contraddizioni, con i suoi irrisolti snodi esistenziali, la sua sete
di verità e di libertà. Sarebbe vano e inutile riepilogare in un
classico elenco di opere quanto è ospitato in questo museo.
Più
che da rammentare nozionisticamente e da guardare sono opere
esperienziali, ambienti da vivere, pieni e vuoti da sperimentare,
luci ed ombre da penetrare, sfide intellettuali da sostenere,
percorsi visivi da compiere, istinti ancestrali da evocare.
Nell’escursione spirituale brividi emozionali percorrono i sensi e
l’occasionale contrappunto di vedute spettacolari che si offrono da
ampi finestroni dislocati un po’ ovunque accresce la centralità
del luogo.
Nel
cuore di Venezia, nel cuore del mondo.
Rosario
Tiso
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