L’attenzione
avvolge di senso ogni cosa.
L’attenzione
disvela la bellezza racchiusa nello
scrigno segreto dell’essenza.
L’attenzione permette di fare
merletti con i fili penduli dei brandelli di realtà che ci circondano.
L’attenzione decripta codici
che da millenari arcani governano il mondo.
L’attenzione è richiesta al
degustatore quando incontra un nettare divino.
Ma non è risolutiva
l’attenzione, ogni tecnicismo, ogni disanima
razionalmente condotta nell’alveo del proprio livello di consapevolezza,
per spiegare una magìa che si ripete da
oltre 400 anni e che porta il nome più seduttivo e seducente della storia del
vino: Chateau d’Yquem.
Non è sufficiente sapere del
miracolo della “botrytis cinerea” che
attacca e imbrunisce gli acini ammuffendoli e seccandoli fino a parossistiche
concentrazioni zuccherine.
Non basta capirne la genesi nell’incontro fortunato fra le
acque fredde del fiume Ciron che si mischiano con quelle più calde della
Garonne, dando origine ad una nebbiolina che ammanta i vigneti e ne ingenera la
formazione.
Né il racconto del “sistema”
Yquem.
Un Castello.120 ettari di
vigne d’intorno. Una plurisecolare proprietà
che l’acquisizione ad opera del gruppo LVMH non ha scalfito e modificato
nella conduzione della tenuta.
Lo stesso manipolo di persone
lavora presso lo Chateau da tempo immemorabile e ci vive come in una realtà
separata, una sorta di “hortus conclusus”, dove non è cambiata l’assidua
ricerca dell’eccellenza nella perfezione e nell’eternità di ogni gesto quotidiano.
La coscienza vacilla al
cospetto di un mito.
Bisogna andare oltre.
Bisogna spiccare il volo.
Della fantasia, dei desideri, dei sensi.
Cessare la recita interiore
che sostanzia la nostra persona. Abolire l’invadenza di pensiero e linguaggio.
Interrompere l’infinito vizioso della nostra esperienza. E lasciarsi andare ad
una folle corsa emozionale.
Una semplice etichetta bianca
reca caratteri dorati quasi a fare da “pendant” con il liquido raggiante svelato dal vetro chiaro
della bottiglia.
Sembra il prodotto di
alchimisti medievali che distillavano ambrosie e fondevano metalli preziosi
alla ricerca della pietra filosofale, del
segreto capace di trasformare tutto in oro.
Ad Yquem il sogno degli
esoteristi di ogni tempo si è
realizzato.
Complessità e persistenza non
sono numerabili.
Questo 1998, che brilla nel
bicchiere come una scheggia di solarità, ha nel miele, innumerevoli frutti,
innumerevoli fiori, la sua cifra olfattiva. Indefinitamente riverberantesi in
bocca in una corale sinfonia di sapori.
Chi voglia capire cos’è la
grassezza e l’untuosità si avvicini ad un bicchiere di Yquem. Strati e strati
di spessi drappeggi glicerinosi, ricami di archetti e lacrime di poderoso
estratto rivestono la superficie del bicchiere.
Una volta scosso, il liquido
permane.
E getta lampi, in fragranti e
cristallini strali, di luce odorosa.
Gli aromi sono inimitabili.
Ecco perché Chateau d’Yquem produce il miglior
Sauternes che palato abbia mai lambito.
Rosario Tiso
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